Eddie Felson (Paul Newman) era il più abile giocatore di biliardo d’America, tanto da meritarsi il soprannome di Fast Eddie, lo Svelto. Per lui guadagnare la «cima della piramide» era stata dura. Si era beccato una sonora lezione da Minnesota Fats, un leggendario giocatore obeso di Chicago, e aveva ripulito i gonzi sbagliati in una bettola malfamata, facendosi fracassare i pollici. Però aveva saputo rialzarsi. S’era affacciato sui propri abissi interiori ed era tornato da Fats: stavolta per vincere! Ma gli anni corrono inesorabili anche per l’indimenticabile «spaccone» del film omonimo (Robert Rossen, 1961). Newman riprende il personaggio (uno dei suoi meglio riusciti) nel seguito del 1986 Il colore dei soldi di Martin Scorsese: costretto a glissarsi, Eddie si tiene alla larga dal tavolo verde commerciando in liquori. È amareggiato e disilluso, ma non è un relitto, anzi, tutt'altro: guadagna pure bene; manca tuttavia qualcosa alla sua vita, un po' di mordente. Un giorno gli capita nei paraggi il giovane Vincent (un Tom Cruise già antipatico quanto dotato): è irruente, bello, e soprattutto gioca da Dio a biliardo - lo specchio di sé venticique anni prima. Una troika formata dal giovane campione, la sua ragazza e l’anziano manager si forma spontaneamente: Vincent focalizzato sulla vittoria perché giocare lo esalta e lo rende vivo, Eddie attento solo all'accumulo di denaro, che non da alcun credito al bel gioco poiché ciò che conta è portare a casa un sacco di pecunia. Ma nel corso del contrastato rapporto i ruoli finiranno per ribaltarsi, con lo Svelto incapace di rattenere l’antica passione.La limpida pellicola di Scorsese si attesta sul confronto tra i due attori protagonisti: caparbiamente fascinoso e distaccato il primo, interprete perfetto della giovinezza straripante e sfrontata il secondo. Grandi tiri di stecca, virtuose inquadrature alla Scorsese e la splendida fotografia di Michael Ballhaus contribuiscono a rendere più succulento il piatto. Non è certo il più emozionante dei film del regista, ciò nonostante è pur sempre una pellicola di Martin Scorsese. Il regista arremba il proprio “oggetto” cinematografico dissotterrandone le radici, eludendo ogni compromesso alla sua maniera. Le palle che impattano sui bordi dei tavoli tuonano come deflagrazioni: il biliardo diventa il fulcro di un universo totalizzante. Nel viaggio on the road verso Atlantic City la strada quasi non si vede, la cinepresa s'intrufola solo nei localacci dove si agitano le stecche, o negli oscuri hotel in cui i tre sostano, litigano, flirtano. Al di fuori del biliardo i confini dell'universo sono opachi: al regista non interessa nient'altro che il tavolo con le buche. Eddie Felson, in questo mondo prestabilito, persegue un suo credo: non conta quel che sei, ma quel che hai. Il profumo dei soldi, il loro colore. Che si tratti di comprare liquori o di giocare e fare scommesse, alla fine non vince il più bravo ma il più freddo, il più calcolatore. L'Eddie di oggi è figlio di ciò che accadde nel ‘61. Battuto allora da Minnesota Fats, il professionista dallo stile impeccabile, lo spaccone si era vendicato perdendo cuore e vitalità (e anche l'amore, se è per questo!). Eddie a conti fatti è ora invecchiato. E su questa semplice constatazione (deducendola in verità dal magistrale libro di Walter Tevis, già autore dell'originale The Hustler) Scorsese lavora di cesello mettendo in mostra la recita di un uomo che all'apparenza è diventato vecchio nel migliore dei modi. Un giocatore che si è appartato facendo lavorare la testa (tenendo a freno il cuore) per annusare Il colore dei soldi. È invecchiato senza spendersi, succhiando la vita dalle fragilità altrui, e ora il suo bilancio sembra in attivo. Ma il regista, impietoso, lo bracca. Scova le rughe nervose che incartapecoriscono le labbra di Paul Newman, ne serrano la fronte. Queste rughe sono in fondo l'essenza più vera del film, sono ciò che costringe Eddie a rivedere la sua esistenza. L’occasione è Vincent. Il tentativo di educarlo diventa la lotta accanita contro il vitalismo della giovinezza, contro la sua forza che rifugge le mediazioni esattamente come all'epoca accadeva per il proprio talento. Il film ricevette quattro nomination agli Oscar del 1987: miglior scenografia, migliore sceneggiatura non originale, migliore attrice non protagonista (Mary Elizabeth Mastrantonio) e miglior attore protagonista. Alla fine l'unica statuetta vinta fu quella che andò a Paul Newman, premio che tra l'altro non ritirò personalmente perché non presenziò alla cerimonia viste le numerose volte in cui era stato candidato e mai premiato. Fantastico.