Ora siamo nell’era del post del digitale e del post “ipocondriaco”. Paure, paure, paure, sembra che ultimamente questa sia la conclusione perfetta, o l’inizio perfetto, di ogni film che venga prodotto.
In The Congress la paura diventa cartoon un po’ come nel caro vecchio Roger Rabbit i nostri IO in un futuro ipotetico si trasformeranno in una enorme bolla di sapone colorata.
Robin Wright, protagonista del film che interpreta se stessa, vive in un hangar sperduto nel deserto con i suoi due figli adolescenti, di cui uno disabile. Dopo anni di silenzio lavorativo, il suo agente le procura un colloquio con il dirigente di uno degli studi hollywoodiani più importanti, la Miramount (crasi fittizia tra Miramax e Paramount). A dispetto delle loro aspettative, non viene proposte lei un nuovo contratto e quindi un nuovo film, ma le viene offerto di cedere tutti i diritti sulla sua immagine in modo da poterla ricreare digitalmente clonando anche le sue emozioni. L’offerta comprende una somma di denaro altissima, e la possibilità di rimanere sempre giovane, ma tutto questo ad una condizione. Robin non potrà mai più recitare. La paura della vecchiaia, l’ansia di non poter dare un futuro migliore al figlio autistico e il fallimento della sua carriera la spingono ad accettare l’offerta.
Vent’anni dopo tutto quello che conosciamo del vecchio mondo non esiste più e l’innovazione e la perdita dei sentimenti a discapito dell’alienazione danno vita ad una vera rivoluzione.
Il regista di The Congress, Ari Folman torna dietro la macchina da presa cinque anni dopo Valzer con Bashir, prendendo spunto dal racconto degli anni ’70 “The Futurological congress” di Stanislaw Lem che predisse una dittatura chimica mondiale ad opera di importanti case farmaceutiche, che avranno il totale controllo sulle emozioni (paure, amore, gelosia, rabbia, desideri) di ogni persona al mondo.
La trama risulta a mio avviso troppo semplice, il progetto doveva essere sviluppato in maniera più dettagliata. E lasciare che le domande sulle nostre emozioni avessero risposte meno nebulose. Se il concetto è che le nostre emozioni vengano lasciate ad altri, perché la paura più grande, quella della perdita del controllo, deve essere lasciata a noi? Stiamo davvero attraversando le fobie di psico futuristiche descritte da Lem nel suo racconto? Stiamo lasciando davvero che altri si “occupino” di noi? La risposta è agghiacciante, ma è SI. Siamo veicolati nelle nostre decisioni, nelle nostre emozioni. Stiamo anche lasciando che a volte le emozioni si allontanino veramente da noi, spianando la strada all’alienazione e al solo cinismo.
Comunque la sola cosa a cui ho pensato per gran parte del film è stato: “Devo rivedere la Principessa Mononoke”. Perché mi è venuta in mente proprio Mononoke di Hayao Miyazaki? Poteva venirmi in mente qualunque altro film futuristico/ambientalista. Poi pensandoci e ripensandoci sono arrivata alla conclusione che Mononoke è la sola eroina ambientalista che posso apprezzare.