The Day is Yours: il Cinema di Kenneth Branagh

Creato il 17 gennaio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il gennaio 17, 2012 | LETTERATURA | Autore: Simone Bellitto

«La pelle umana delle cose, il derma della realtà, ecco con che cosa gioca anzitutto il cinema». Antonin Artaud

Il critico francese André Bazin, sosteneva che, nel rapporto fra cinema e teatro, una nuova concezione di teatro cinematografico dovesse soppiantare la nozione di teatro filmato, svelando, e non mascherando, la convenzione teatrale agli occhi dello spettatore, rendendola intrinsecamente manifesta. Proprio dalla citazione di Artaud (riportata fedelmente all’interno del saggio che ci accingiamo ad analizzare) e dall’assunto teorico di Bazin parte la nostra disamina su The Day is Yours. Kenneth Branagh (Siska Editore, 2011) di Ilaria Mainardi. Il saggio, precisando immediatamente di non voler essere la solita rassegna di materiale biografico sul noto cineasta/drammaturgo irlandese, si articola su vari piani. Questi rappresentano sia vita e opere dell’autore che riflessioni più profonde sul teatro e sul cinema, e su come queste due arti riescano a compenetrarsi. Un mezzo, infatti, non esclude l’altro, semmai lo arricchisce. Filosofia ascrivibile, oltre al già citato Bazin, ovviamente a Branagh, da sempre al di qua e al di là del palcoscenico, nato a teatro e consacrato nel cinema grazie all’arte scenica. Un artista che è figlio delle working class, proletario dunque, trapiantato in Inghilterra e che da qui, dalle esperienze acerbe a quelle più mature, perfezionerà il suo bagaglio intellettuale. Formazione su cui sarà essenziale l’influsso di uno fra i più grandi maestri della drammaturgia mondiale, William Shakespeare. Ed è su questo che il libro fa perno e da qui si dipana il nucleo concettuale su cui si regge la struttura del saggio. Branagh media il Bardo (dopo averlo interpretato numerose volte a teatro) da grandi maestri cinematografici, come ad esempio Laurence Olivier. A differenza del “padre putativo”, però, lo ritrasforma e lo riadatta al proprio modus operandi. Particolarmente interessante, a questo proposito, l’accostamento parossistico fatto in merito a due opere tratte da Shakespeare, Henry V (1944 quello di Olivier; 1989 la versione di Branagh) e Hamlet (1948; 1996), azzardato ma senza dubbio efficace: il regista irlandese riceve in eredità il suo maestro, senza comunque rinnegarlo, in un modo simile a quello in cui Sam Peckinpah trasforma John Ford nel campo del western americano.

Ritornando ad Amleto, sarà proprio questo il personaggio più amato da Branagh: «Volevo interpretare Amleto tutte le volte che mi fosse possibile». Amore per il personaggio mediato anche da un attore-feticcio, vale a dire quel Derek Jacobi che tanta ammirazione gli aveva suscitato nella parte del principe danese, che letteralmente apre il sipario del suo Enrico V e gioca un ruolo fondamentale nel suo mastodontico Hamlet. Ma c’è spazio anche per altro oltre che per Amleto nel cuore del nostro moderno “tragediografo”. La sua carriera, minuziosamente delineata in questo The Day is Yours, spazia dal già citato Henry V, alla gustosa commedia Molto rumore per nulla (Much Ado About Nothing, 1993); passando per la curiosa rivisitazione della vicenda del principe danese in Nel bel mezzo di un gelido inverno (In the Bleak Midwinter, 1995) in cui vi è la mediazione realtà/finzione teatrale in modo quasi parallelo al film di Ernst Lubitsch Vogliamo vivere! (1942). Ma non troviamo solo Shakespeare nel bagaglio cinematografico “branaghiano”. Vi sono, infatti, l’originale riconversione dell’opera mozartiana ne Il flauto magico (The Magic Flute, 2006), i rimandi ad Hitchcock nel surreale giallo L’altro delitto (Dead Again, 1991) oppure al romanzo gotico di Mary Shelley nel Frankenstein di Mary Shelley (Mary Shelley’s Frankenstein, 1994), “fedele, fino alla maniacalità”. Per concludere (finora) la sua carriera con “un azzardo non da poco” come quello del blockbuster Thor (2011), discusso e discutibile ma scanzonato e personale modo di guardare alla produzione di largo consumo (disdegnata spesso e volentieri, con inappuntabile senno). Il sunto ed il ritratto che ne cogliamo dunque è quello di un Kenneth Branagh poliedrico, versatile e polimorfo “mago” della messa in scena. La Mainardi pertanto, in conclusione, si tuffa nell’impresa di cogliere il nocciolo del pensiero del nostro artista senza aver paura di voli pindarici tra la riflessione sui mezzi scenici e l’analisi delle opere, mai comunque lette isolatamente, ma sempre osservate con l’occhio di chi scruta molto più in profondità, all’insieme degli elementi. Chi ama Branagh, dunque, non avrà difficoltà a leggere questo testo, e a riconoscere negli elementi ivi assemblati quelli che lo caratterizzano essenzialmente. Chi non lo conosce abbastanza avrà invece modo di compiere un volo radente su questa materia fatta “della stessa sostanza dei sogni”, sospesa velatamente fra illusione e realtà, verità e menzogna. Perché tutti siamo un po’ personaggi di teatro, tutti recitiamo il nostro ruolo. Se non ci credete guardate Nel bel mezzo di un gelido inverno. “The show must go on!”.



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