The Dead Walk!

Creato il 21 marzo 2012 da Elgraeco @HellGraeco

Specie in questi giorni, specie oggi, è bene parlarne: perché ci sarà sempre qualcuno che storcerà il naso, che accuserà Romero di aver usato frattaglie di maiale, di aver insozzato lo schermo per non fare arrivare, dopo tutto, alcun messaggio. Anzi, cosa ancora più grave, alcun messaggio di speranza. E bollerà Day of the Dead come l’opera di un onesto artigiano del cinema. Una di quelle frasi sulle quali la Zia, e io, saremmo restati a ridere per due ore. Ecco, comincio col dire che il cinema (o le serie televisive) confezionato per donare (falsa) speranza non è sciocco, soltanto non necessario.
Oggi si parla tanto di quell’altro telefilm, quell’abominio, e persino lì si cercano i sottotesti. Perché lo zombie ha questa strana natura caduca, che ci spinge a riflessioni che imitano il filosofico, ma che, per lo più, appartengono a gente che la filosofia non l’ha mai sfiorata, si colgono citazioni nel pasticcio, si nega di vedere la mediocrità.
Eppure lo si sapeva, nel 1985, che dopo quel titolo di giornale, The Dead Walk!, che è anche il titolo di quest’articolo, questo genere aveva ormai detto tutto e che, da quel momento, sarebbe stato un continuo citarsi addosso, nella speranza anche solo di sfiorare quella complessità, quella sinfonia di temi che l’artigiano Romero riuscì a toccare.
La domanda che ci attanaglia tutti è: ne fu consapevole? O s’è trattato delle sovrastrutture elaborate da chi un film non lo dirigerà mai, in vita sua? Quello strano essere chiamato critico?
E, soprattutto, ne erano consapevoli coloro che ci lavoravano? O s’accontentarono di ricevere il cappellino con su scritto “I played a Zombie in Day of the Dead”, la copia del quotidiano su citato e un dollaro?
Probabilmente, per molti di loro, è così che andò. Non so quanto darei oggi, per partecipare a un progetto che faccia simili doni.

***

È sufficiente guardare i primi minuti de Il Giorno degli Zombi. Sarah, il cui nome vero è Lori Cardille, Lori… vi dice niente questo nome?
Sarah seduta a terra, contro un muro spoglio, dall’altra parte un calendario del mese di Ottobre, sul quale campeggia la foto di un campo di zucche…
Non ho mai creduto all’idea che un regista non sappia cosa stia inquadrando. Certo, a volte dettagli inconsapevoli entrano nella scena, la fanno grande anche se ancora non si sa, ma qui Sarah si mette in piedi e accarezza il calendario con le zucche. Si sceglie di ambientare l’apocalisse nel mese di Ottobre, mese tipico per quell’ortaggio, e per tanti altri significati riguardanti i vivi e i morti.
La poetica, ancora una volta, ci viene servita in pochi secondi, con poche inquadrature, in una scenografia spoglia che travalica i limiti del budget e ci comunica la solitudine della razza umana chiusa in una stanza che è un sepolcro, ad ammirare le zucche.
Questo frutto è simbolo di fertilità. Spesso abbiamo sentito dire, specie nelle ultime settimane, che l’apocalisse non è adatta ai bambini. Ma quanto è grande Romero che per ottenere lo stesso effetto di dirompente e assoluta disperazione ci regala un semplice calendario con le zucche?
In esso c’è il tempo, nella stanza il vuoto di un mondo lasciato ai morti, la disperazione di una donna ancora fertile che è soggetta alla fine, come tutte le cose del creato, il cui uomo è ridotto a pezzi e sta per crollare, non fa nemmeno parte dei sogni, se non come Uomo Nero, boogeyman dagli intestini penzolanti.
Ma non solo, il fiore della zucca è color giallo pallido, come le ossa dei morti, e la sua semenza, be’, non sta a me ricordarvi cosa simboleggia il seme… e quanto sia inutile, in un mondo che di vita non ne vuole più sapere.

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La zucca è il simbolo Halloween che, se non lo sapete, è festività connessa alla leggenda di Jack il Contadino, uomo furbo, che riuscì a gabbare il diavolo per far sì che non finisse mai all’inferno. Vi ricordate della frase pronunciata da un certo Peter? Quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra… Non ditemi che, di fronte a questa consapevolezza, non vi vengono i brividi.
Romero, quindi, sapeva benissimo cosa stava facendo. Pessimismo cosmico il suo, è vero. Ma allo stesso tempo, io ci colgo un desiderio di vita e rinascita, di godere delle piccole gioie, di assaporare il tempo, che faccio anche mio. Io sono come lui: un folle, probabilmente.
Il Giorno degli Zombi è pieno di queste scene simboliche. Al di là degli effettacci, della lotta dell’umanità contro se stessa, perché proprio come sostiene John, pur essendo rimasti in pochi, i superstiti sanno soltanto vivere la vita che vogliono, c’è la mitologia all’opera, nel tentativo riuscito di fornire una visione alternativa del mondo (ma poi quanto?), univoca e affranta.
Non è neppure questione di politica, né di satira. E sono d’accordo con chi sostiene che, al di là dei meriti del trucco, interpretare uno zombie sia cosa da poco: basta mettersi a camminare lento, fingendo di barcollare (anche se credo che, per un personaggio come Bub, un minimo di lavoro ci sia eccome): il nucleo è il disfacimento, proprio quello che, per paradosso, evita di putrefarsi nel cervello degli zombie. Le città sono le cattedrali dei morti, l’umanità giace al buio, nelle caverne, in un ribaltarsi dei ruoli che, in verità, sa molto poco di contrappasso. È esiziale.

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John passa il tempo in un camper, circondandosi di fondali raffiguranti paesaggi tropicali e leggendo le (uniche?) letture che il complesso militare sotterraneo dove “lavora” gli concede, i resti, catalogati e ordinati, della civiltà. Nel quadretto con Sarah, quasi una famiglia nucleare, laddove la figura dei bambini è stata eradicata da una croce sul calendario delle zucche, non bastassero le budella che cascano per terra prima dallo zombie, poi da Miguel, c’è la vita, quel che resta di essa, destinata a concludersi nell’arco di pochi anni, la civiltà, che è inutile perché goffa e non è pratica, e la morte, le urla degli zombie, i lamenti lugubri.
La realtà cruda, che non può mai progredire, il corso della storia che, contro ogni aspettativa, o forse no, è giunto al capolinea, la stolida e tuttavia ineluttabile speranza che dovrebbe portare i superstiti, anziché impazzire, a fuggire per continuare a esistere, proprio come il Dott. Logan sostiene di fare con Bub, ecco, tutto questo ci viene offerto da poche frasi e da poche inquadrature, in una completezza che sa di capolavoro, lontano da una qualunque, possibile, resa casuale.
Due sole scene, e ci si rende conto di quanto grande sia Romero e di quanto debba essere difficile, e appetibile, anche solo sfiorarlo, lui e la sua visione della fine, inevitabile e allo stesso tempo, desiderabile. Per avere, finalmente, un po’ di pace.
I nostri superstiti, se poi di sopravvivenza si tratta, dato che l’alternarsi di realtà e sogno è leit-motiv del film, tornano, sull’isola deserta, a sopravvivere, a contare il tempo. Una vecchia abitudine, l’illusione di una normalità che non esiste più, insieme alla presunzione umana.
Questa è poetica, questo era più di vent’anni fa. Oggi ci contentiamo di seguire un elicottero e di ascoltare chiacchiere, in una sorta di autismo creativo che fa il pubblico idiota. I tempi cambiano, il mondo anche. Bisogna chiedersi se ne sia valsa la pena.
E adesso, musica


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