Continua la disamina su Neil Marshall, perchè nonostante il nostro inglesone non esca al cinema dall'ormai lontano 2009, è peccato mortale dimenticarsi di lui. Dopo aver parlato dell'incompreso Centurion e del citazionista Doomsday, è arrivato il momento di dedicarsi al film che ha reso Neil un vero e proprio eroe per i fan dell'horror: The Descent.
Sei amiche organizzano una spedizione speleologica: un crollo improvviso però le blocca sottoterra. Nella ricerca di una via d'uscita inquietanti segnali faranno loro capire che nella grotta c'é qualcuno, o qualcosa.
Quando Marshall venne fuori con questo film nel 2005, gran parte degli appassionati horror gridarono al miracolo. Li vedevi con un grande sorriso sulle labbra dopo aver visto il film. Io invece no. Mi ci sono volute tre visioni per apprezzare pienamente questo film che in effetti è il gioiello di cui tutti parlano e che giustamente e divenuto un cult. Credo che tutti gli appassionati del genere ma anche i più semplici (e vasti) appassionati di action debbano ringraziare Neil per aver incominciato a girare film. Perchè uno come lui capita una volta ogni cinquantanni. Uno che quando fa un film (si vede) si diverte e basta, uno che ci mette tutta la passione del mondo e, soprattutto, uno che ha pagato i propri tributi al passato.Questo suo secondo lungometraggio e vero grande successo non si distacca molto dagli altri suoi film di cui ho parlato in passato: citazionista, splatter e ricco d'azione. Però è anche un horror con la H maiuscola, roba da vedere e rivedere, tanto fa paura anche se lo conosci a memoria.
Ok, cosa fa Marshall? Costruisce la paura, è vero, gioca con le attese (il tempo) e con le location (lo spazio), rinuncia a tutto l'abra cadabra che può produrre una messa in scena ricca e si concentra sui particolari, operando una sintesi da tutti i punti di vista. Ok, ma cosa fa davvero Marshall? Si diverte e lo fa mettendo in scena la propria poetica. "E' un'impresa tanto eccezionale divertirsi facendo uno dei lavori più belli del mondo?", chiederete voi. Sì, lo è. Così il nostro buon britannico costruisce la sua opera e non ci crederete mai, prende dei personaggi e agisce su di loro non trattandoli da scemi. Prende una donna (Sarah), il marito di lei e suo figlio e fa fare loro un incidente. E questo incidente distrugge la famiglia. Quanto ci mette? Una decina di minuti, forse meno. Sarah sopravvive, gli altri due no. Una donna viene presa e privata di tutto e il bello è che Marshall non ci spara un pippone di mezz'ora: come sta lei, cosa prova, come stanno le amiche di lei che la consolano e così via. Una scena sola basta per dire tutto, un sogno, un lungo corridoio e le luci che si spengono poco alla volta lasciando la poveretta nell'oscurità più profonda. Uno stato d'animo reso visivamente in due minuti: essenziale ma efficace.
Poi effettivamente il film inizia e diventa qualcos'altro, qualcosa di totalmente diverso da quello a cui abbiamo assistito fino a quel momento.
Ci sono sei ragazze appassionate di speleologia e sport estremi. Sono più o meno tutte amiche e hanno deciso di fare un'escursione in un grotta per cercare di far uscire Sarah da quel tunnel (il corridoio del sogno) in cui la donna è rimasta intrappolata. Quasi una terapia d'urto. Tra loro ci sono Juno e Beth, quelle che potremmo definire le sue amiche del cuore e che come tutte le amiche non sono mai quello che sembrano: Juno aveva una relazione col maritino di Sarah, Beth sapeva tutto ma non aveva mai detto nulla. Marshall intanto ha costruito qualcosa: un background che anima i personaggi e gli fa apparire vivi, non semplici pupazzi stupidi che si meriteranno la fine che faranno. Fa interagire le donne ma non esagera, quasi se ne sta in disparte e si limita a riprenderle. C'è qualcosa di strano però "nell'aria che si respira", a partire dalla baita isolata in mezzo al bosco dove le sei si ritrovano. Quasi il presagio di quello che sta per accadere.
Che ne dite, è arrivato il momento di metterci i mostri? Qualunque altro regista lo farebbe ma il nostro no. E noi non possiamo far altro che ringraziarlo.I mostri vengono relegati in questo film all'ultima mezz'oretta. Certo, ci sono e noi lo capiamo, ma qualche cannibale rachitico non può fare tutta questa paura. Prima è meglio fare a pezzi i nervi dello spettatore (e delle protagoniste) facendolo scivolare tra anfratti sempre più stretti, quasi soffocanti, scantenando in lui un senso di claustrofobico terrore in grado di atterrire, quello sì, perchè così reale da far male.I mostri sono solo un semplice trucco per scatenare l'azione e lo splatter. Per far menare botte e mostrare arti staccati e denti ingialliti che sbranano nel buio. Al centro del film resta la donna, quella donna che Marshall deve amare e che ci mostra in tutta la sua vulnerabilità e la sua forza selvaggia. L'ho già detto e lo ripeto: i personaggi femminili del regista inglese sono donne nel profondo, androgine, dolci e e imperfette, marchiate dalla violenza e che alla violenza si ribellano, senza per questo aver paura di sporcarsi un po' con essa.
Marshall come sempre non rinuncia ad un citazionismo che non è mai spicciolo e si traduce in omaggio: impossibile non notare i rimandi agli Aliens di Cameron che come i crawlers "escono dalle fottute pareti"; o la colonna sonora che rimanda a quella di The Thing del maestro Carpenter (e come l'alieno di zio John, anche in The Descent i veri mostri sono quelli che ci portiamo dentro). In più un lieve riferimento al mockumentary, come a voler ricordare che, a volte, la camera è l'unico strumento in grado di mostrare gli orrori che l'uomo è incapace di scrutare.La regia e il montaggio sono praticamente perfetti: Neil stringe sempre di più le inquadrature come ad aumentare la sensazione di soffocamento per poi spalancarle di nuovo nel finale, quando gli inferi si aprono agli occhi dello spettatore. Ad aiutarlo la fotografia di Sam McCurdy. E dire che tutto è costruito in studio, tutta finzione come al regista piace ricordare, perchè alla fine si tratta di un gioco divertente: il gioco di una vita.