Apparentemente pensato come una facile riproposizione degli stilemi del j-horror per sfruttarne il successo, “The Eye”, di Oxide Pang Chun e Danny Pang, denuncia immediatamente la sua vocazione d’esportazione e strizza l’occhio al mercato americano (un esempio per tutti, la ragazza che vede “la gente morta”. Il riferimento a “The Sixth Sense” è più che diretto).
Ma il dato più interessante dell’opera è quello che ci porta all’assunto di base della storia e al nucleo centrale del film, ossia al perché la protagonista veda “la gente morta”.
Mun (il nome della protagonista) torna a vedere, dopo lunghissimi anni di cecità, grazie ad un trapianto di cornea reso possibile da una misteriosa donatrice. Da quel momento in poi si affacceranno davantio ai suoi occhi numerose presenze e indicibili situazioni, invisibili per gli altri, ma visibili e vivibili per lei.
Il fatto che Mun scopra a chi fossero appartenute le cornee che porta negli occhi ha certo un ruolo importante, ma l’elemento di maggior spessore è proprio il concetto insito nel vedere con e attraverso gli occhi di un’altra persona. Ciò che si vede con gli occhi di un altro è qualcosa di diverso, è qualcosa di personale, è un vedere con l’anima dell’altro e attraverso l’anima dell’altro.
Le visioni di Mun sono terrificanti, non c’è pace in nessun luogo e i morti non sono quelle presenze rassicuranti e familiari che ci piacerebbe pensare veglino su di noi.
Seppur con le dovute e opportune distinzioni, viene alla mente il riferimento a “They Live” (“Essi Vivono”, 1988), di Carpenter, con i suoi occhiali speciali che mostrano, dolorosamente, il vero stato delle cose.
Ma vi è anche un’altra possibilità, ossia che siano gli occhi degli altri a sbagliare, per chi, come la protagonista di “The Eye”, non vede dall’età di due anni, e che la verità stia invece, ancora e di nuovo, negli occhi di altre persone, occhi che vedono una realtà differente. Il non vedere viene ad essere una fuga, un diversivo, un radicale e pascaliano
In questo senso, è impossibile non avventurarsi in una lettura meta-cinematografica, dove lo sguardo tecnicamente esterno al nostro, quello del regista, quello della macchina da presa, finisce ovviamente per coincidere, in sostanza, con il nostro, laddove vediamo ciò che il cinema vuole mostrarci, e tale scelta si configura di nuovo come una scelta etica.
In questo ulteriore senso la cecità, la negazione della visione, è nuovamente l’atto più inaccettabile, perché per quanto configuri una volontà e una volontaria presa di distanza da qualcosa d’altro da noi, da un’alterità spesse volte soltanto intravista tra le pieghe del silenzio, struttura in realtà un rifiuto del confronto e soprattutto della possibilità che la verità sia un’altra, non nel nome di una diversa visione, ma all’insegna di una mancanza di visione e
Ad ogni modo, a parte questi elementi, che, pur non essendo originalissimi (diverse altre, nel panorama del cinema mondiale, sono le pellicole dedicate al tema del “vedere con gli occhi di un altro) e alcune sequenze paurose azzeccate, i personaggi piuttosto abbozzati, certe forzature nella trama narrativa appesantiscono un film che, comunque, non diviene brutto, ma che non riesce neppure a centrare interamente il proprio senso, nonostante a tratti l’uso del montaggio sia da manuale.
Si sente, infatti, durante la visione, che manca qualcosa, e ciò può forse (e dico forse) essere stato intenzionale, da parte dei fratelli Pang: del resto, quale realtà vede esattamente Mun con gli occhi trapiantati? E poi, quale è davvero la realtà?
Written by Alberto Rossignoli
Fonte
M. Lolletti – M.Pasini, “Storia di fantasmi. Il nuovo cinema horror orientale”; Foschi Editore, Forlì 2011