Io continuo a dirlo: che regista strano, famelico, multiforme, travestito, è Steven Soderbergh. Quando ormai sospetti di aver inquadrato il suo cinema, costruito di false piste, macguffin e retrovie, ti trovi di fronte un film come "The Girlfriend Experience" e sei costretto, ancora una volta, a ritrattare, rivalutare, riformulare la poetica e il mondo di quest'autore.
Perché non appena pensi, dopo la visione di film come "Effetti collaterali", "Magic Mike" o "Contagion", che Soderbergh sia un prodigioso bluffatore, teorico al 100 % di un'immagine ingannevole e di superficie, fredda, cinica se non clinica, allora incontri un film come "The Girlfriend Experience" e tutto questo non regge più (per non parlare del dolcissimo "Behind The Candelabra" che coglie nei trattamenti di chirurgia estetica l'ossessione narcisistica della pelle e riscopre, poi, perfino un'anima).
Dicevamo, "The Girlfriend Experience".
A discapito delle apparenze è un'opera di cuore, pruriginosa e insieme discreta nei confronti della sua splendida Sasha Grey, corpo attoriale perfetto, ferito sotto una maschera che sta ancora vacillando ma è sempre in procinto di cadere. Se è vero che il mondo che la circonda è opaco, squallido e materalista, lei, escort gentile, è una luce poco sospetta, bramosa di libertà e indipendenza, memore di un sentimento inestirpabile; è in grado perfino di riscoprire l'amore come una novella Principessa che vuole liberarsi dalla sue catene (la matrigna!) e ricominciare a vivere. Ci troviamo di fronte a un regista che se non può permettersi di credere a un'umanità spietata, riesce ancora ad aver fiducia nel singolo e nei suoi sentimenti: proprio come all'interno di una fiaba che, privata dell'happy ending, può almeno continuare ad attenderlo (e a sperarlo).
"The Girlfriend Experience" percorre le traiettorie di un cinema che è ormai (con)fuso con la realtà, interessato a fagocitare tutto, perfino i tempi morti, soprattutto i tempi morti. Un cinema che fa del superfluo l'ultimo ricettacolo del sentimento: conversazioni vane che non portano a nulla nel continuo ripiegarsi di un film che, comunque vada, prosegue. Esatto, è proprio questa la sensazione, che un'opera come "The Girlfriend Experience" non conosca arresto, non possa interrompersi, ma semplicemente, inevitabilmente continui (al di là dello spettatore, al di là del regista stesso, al di là del film). Privo di inizi o di finali, supportato solo dal girotondo dei sentimenti di una donna che esiste ed è ancora prima di apparire (quattro anni dopo sarebbe arrivato "Spring Breakers" di Korine dove, dolorosamente, il divario che separava l'essere dall'apparire, sarebbe caduto per sempre: sarebbe arrivato il virtuale).