A Los Angeles, negli anni Ottanta, s’aggirava uno stupratore. Indossava un impermeabile Plymouth grigio e il suo cuore innaffiato di tequila era come i camperos che portava ai piedi: inzaccherato di fango e polvere del deserto del Mojave. Sboccato, osceno, martire di se stesso, Jeffrey Lee Pierce era uno stupratore atipico. Non straziava corpi umani. Le sue vittime erano le radici musicali del rock americano. In testa ai suoi Gun Club s’avventava su di esse con la ferocia di un Ted Bundy al culmine dell’eccitazione sessuale. Afferrate le roots per il collo, amava scorticarle a colpi di lurido punk, oltraggiarle con liriche demoniache e depravate. Le demoliva. Le annientava. Diabolico, riconvertiva i canoni del country e del blues in un ibrido viscerale dannatamente seducente.
Giamaica. Terra magica. Voodoo e culti atavici. Il giovane Jeffrey s’imbeve di ciò che incontra durante agitate peregrinazioni nelle terre caraibiche. Poi, dopo aver distillato il tutto con abuso di stupefacenti, ritorna a Los Angeles. Qui, circondato da vecchi dischi blues, abbandona la chitarra, passa al microfono e trasforma i Creeping Rituals in Gun Club. Ma la California non è il Mississippi e a L.A., feroce metropoli-vampiro, la riesumazione della ruralità della musica folk afro-americana non può prescindere dalle inquietudini e dalla rabbia post-punk. Ne nasce qualcosa di mai sentito prima, una creatura febbricitante che tuttora istiga i cultori di musica rock a battibeccarsi sul genere d’appartenenza. Post-punk, d’accordo, ma non basta. I Gun Club miscelano lo psychobilly dei Cramps col Delta blues di Son House e Robert Johnson, rincorrono Bo Diddley lungo autostrade fantasma, costruiscono giochi di luce tribali nell’umida vegetazione di giungle afose e dimenticate. Nel 1981, con Pierce alla voce, Ward Dotson alla chitarra, Rob Ritter al basso e Terry Graham alla batteria, la band registra Fire Of Love, primo enorme passo verso un destino che li vorrà emarginati protagonisti di una rivoluzione biologico-musicale che solo con Jon Spencer sarà ampiamente riconosciuta: la corruzione della sacra tradizione blues attraverso il purulento virus del punk.
Tre ristampe recenti da recuperare
Siamo di fronte a due full-length e un ep dal peso artistico incalcolabile, ristampati dalla londinese Cooking Vinyl. Ogni album originale presenta un bonus cd con registrazioni dal vivo che, dall’‘82 all’‘84, offre il meglio sul mercato per immergersi nell’immoralità e nella macabra poesia delle performance di una delle band dal bagaglio immaginifico e creativo più fervido della storia del rock: i Gun Club.
A Miami è accoppiato un live dell’‘82 tenutosi al Continental Club di Buffalo. Se il precedente Fire Of Love disturbava e ammaliava per il suo modo infernale di interpretare il verbo del Delta, Miami sorprende per il suo rock elegante e spettrale, dove i fantasmi infuriati di vecchi bluesman rilassano il broncio per tendere la mano a un country irresistibilmente crepuscolare, solenne come lo sguardo dell’unico sopravvissuto a un western di Sam Peckinpah.
Nel 1982 i Gun Club rimaneggiati decidono non lasciare inutilizzate alcune tracce scartate dalla formazione precedente e pubblicano il mini album Death Party. Cinque brani eccellenti, un calibrato compendio tra le sfuriate luciferine di Fire Of Love e le calde lacrime di Miami. Al cd la Cooking Vinyl ha abbinato il live al Rote Fabrik registrato a Zurigo il 20 marzo 1983, una performance devastante in cui Jeffrey Lee Pierce sovrasta lo sciamanesimo morrisoniano dando libero sfogo al suo misticismo perverso. Brividi durante la cover ululata dei Creedence, “Run Through The Jungle”.
Un anno dopo è il momento di The Las Vegas Story, album impreziosito dalla chitarra di Kid Congo Powers dei Cramps. La sincerità del disco è commovente e i Gun Club sono paurosamente in bilico tra le sofferenze esistenziali di Pierce e sogni d’evasione nati già morti in soffocanti stanze di motel. Stavolta il bonus disc ci porta a Strasburgo, nel 1984, dove il 20 novembre la band tenne un concerto al Loft. La scaletta, più eterogenea delle precedenti, include una cover di “Louie Louie” di Richard Berry che, trasformata in un osceno putiferio dalla mente contorta di Pierce, suggella quanto il compianto Jeffrey Lee, chiamato prematuramente a far compagnia agli spiriti del blues il 31 marzo del 1996 per emorragia cerebrale, si divertisse, come un sadico bimbo alle prese con una cavalletta, a tagliuzzare le aluzze e a mozzare le zampette del rock classico e perbenista di un’America spietata, culla, madre e troia di uno dei pochi, veri geni maledetti dell’ultimo trentennio.
MIAMI: CD1 – original album / CD2 – live show Continental Club, Buffalo, New York – 1982
DEATH PARTY: CD1 – original EP / CD 2 – live show from Rote Fabrik, Zurich, Switzerland – 20th March 1983
THE LAS VEGAS STORY: CD1 – original album / CD2 – live show from Le Loft, Strasbourg, France – 20th November 1984
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