Pollice: su
Nonostante io sia un fan di Quentin Tarantino, non lo idolatro. Nel senso che è uno dei miei registi preferiti, ma non credo che ogni cosa che lui faccia sia il massimo. Mi piacciono tutti i suoi film e dico tutti, ma non mi passa nemmeno per l'anticamera del cervello di esaltarli, neanche uno. Passo dal buono al bello al bellissimo ma non arrivo mai al "capolavoro". E quando mi sono ritrovato di fronte alla sua ultima pellicola, quella che in molti (tutti) hanno definito il suo film meno tarantiniano - ma che per me è l'apice di questa definizione - mi sono ritrovato con il diavoletto della noia sulle spalle che mi suggeriva cose ben poco lusinghiere su The Hateful Eight.
Poco fa ho usato il termine "tarantiniano" e questa non è la prima volta. Quando il nome di un regista diventa aggettivo, significa che il regista in questione è divenuto rappresentativo. Ma la stessa definizione di "tarantiniano" si è evoluta nel tempo, dagli anni '90 ad oggi. Perché in un primo momento ha sostituito quello di "pulp" (che il pulp in fondo chi lo conosceva? Nessuno!) per poi divenire significante a se. E dire che un film di Tarantino è meno tarantiniano di un altro a me sembra una sciocchezza assurda. Che poi, in The Hateful Eight c'è tutto quello che contraddistingue il cinema del suo regista: citazionismo estremo, eccessi visivi, eccessi verbali, violenza, scorrettezza. Anche dal punto di vista tecnico, siamo nell'ambito del tarantiniano, dal punto di vista strutturale, dal punto di vista concettuale. Tarantino è divenuto iconico rielaborando quel che iconico (almeno per lui) lo era già e The Hateful Eight non fa eccezione a questo processo: c'è il western, c'è il giallo, c'è lo splatter e c'è pure l'horror, tutto filtrato dall'ottica, dal cuore e dall'esperienza di Quentin che, prendendo questi ingredienti, ha creato un piatto che nessuno aveva mai pensato di cucinare. Nemmeno lui, prima d'ora, altrimenti non staremmo parlando di Tarantino.
Quel che manca, di solito, nei film di Tarantino, è una trama. Nel senso che il cinema del nostro è quasi episodico, un accumularsi di situazioni calate in un determinato contesto. Forse il motivo per cui molti hanno trovato The Hateful Eight al di fuori dei soliti canoni è che il suddetto film, per ben metà della sua durata, fa della trama il proprio punto di forza. Nulla di strano se consideriamo il suo "secondo tempo" un giallo alla Agatha Christie che, in quanto tale, non può sfuggire ai cliché del genere e non può ribaltare canoni prestabiliti che ne permettono il funzionamento. Un giallo deve essere in una determinata maniera e non può essere altro, questo anche Tarantino lo sa. Per questo la sua ottava creatura mostra una duplice faccia e, devo ammetterlo, a me ne è piaciuta solo una.
Tutto ha inizio nel Wyoming, nel bel mezzo di una brughiera innevata, con una diligenza che corre verso la città di Red Rock prima della tempesta. A bordo ci sono il cacciatore di taglie John Ruth che sta scortando l'omocida Daisy Domergue verso il patibolo, il cacciatore di taglie afroamericano Marquis Warren, il neo sceriffo di Red Rock Chris Mannix e O.B., il cocchiere. Ma la città è troppo lontana, la bufera troppo vicina e l'unica possibilità per sopravvivere e ripararsi nell'emporio di Minnie, una baracca che accoglie e ospita viaggiatori. Lì il gruppo troverà quattro sconosciuti dall'aria poco raccomandabile. E uno di loro mente sulla propria identità, questo è poco ma sicuro. Ma chi? E perché?
Come ho detto all'inizio, la prima idea che mi sono fatto di The Hateful Eight è stato "noioso". Una noia non dovuta al film in se, girato alla perfezione, né agli interminabili dialoghi/monologhi che, seppur più interminabili del solito, sono qualcosa che lo spettatore si aspetta ed è pronto ad accettare. Piuttosto, si trattava di una sorta di vagare incontrollato per le lande desolate del nulla. Se a me i dialoghi di Tarantino sono sempre piaciuto per una sorta di gusto per il frivolo che il regista rende alla perfezione fuso a tematiche/argomenti in grado di solleticare la curiosità dello spettatore, devo ammettere che questa volta ci ho visto per lo più un girare a vuoto, allungando la strada per poi arrivare ad un punto che, raggiunto per via retta, non avrebbe poi perso gran parte del proprio carisma. Stranamente, nella prima ora e mezza di film, a fare da padrone è l'azione più che la favella. Determinati comportamenti dei personaggi, botte da orbi, cipigli, sguardi. Il tutto in pieno stile western. I pugni e gli schiaffoni che John Ruth da a Daisy Domergue, uniti agli sguardi che i due si scambiano e ad una certa complicità che, volenti o nolenti, saranno costretti a mostrare nel corso della vicenda, attirano l'attenzione dello spettatore più dei dialoghi, delle battute, delle imprecazioni.
E con i comportamenti che Tarantino porta avanti il film, con la caratterizzazione dei personaggi, con gli accenti e con l'ambiente in cui essi si muovono. Con i volti, quelli di attori che prestano le loro facce ai personaggi. Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demián Bichir, Tim Roth, Michael Madsen non recitano, ma diventano parte del film. Al loro posto prendono vita i loro alter ego. Detto questo, sempre noia ho provato, una noia violenta che partiva dal fatto di immaginare già cosa mi sarei potuto aspettare nella seconda parte di film. Un attesa che questa volta non è valsa il viaggio, prima di arrivare ad una escalation di violenza, sorprese, colpi di scena, con una tensione tenuta su (sul filo del rasoio) con tecnica ineccepibile. E forse, in The Hateful Eight, a funzionare di più e la parte non tarantiniana che ora però tarantiniana lo è, proprio per come Tarantino l'ha resa tale spingendosi ancora una volta dove non aveva mai fatto.
Alla fine il film appare bilanciato, con colpi di genio incredibili, la solita divisione in capitoli, la musica di Morricone che finalmente vince l'Oscar, con il cinema che racconta una storia per poi raccontare se stesso, mostrando i meccanismi su cui il regista riflette ancora una volta, col suo modo sgraziato e la sua favella sporca e divertita. Con il suo voler ad ogni costi narrare le origini di un'America ancora agli albori, da poco sopravvissuta alla guerra civile, fatta di ferite che tardano a cicatrizzarsi (e ancora non lo sono del tutto) e di uomini che gliene faranno di nuove. Uomini umanissimi nelle loro imperfezioni, cattiverie, volgarità. Uomini fatti di onore e poco altro, mentre il sangue scorre e i soldi abbagliano, mentre il piombo si abbatte su di loro e li rende protagonisti di una storia triste, estrema, assurda. Mentre i buoni sentimenti, la bellezza, diventano rimpianto, finzione nella finzione, come quella lettera lì, letta alla fine, a cui nessuno può credere ma oh, come sarebbe bello.