Quando ho comprato il biglietto per il Concerto di Leonard Cohen non mi aspettavo certo di trovarmi tra i fan di una Boy Band, ma la realtà supera le aspettative: sembra di essere nel reparto geriatrico dell'ospedale di Zurigo. Il concerto è previsto per le otto di sera (per evitare di far tardi) e il palazzetto è pieno. Più di seimila posti a partire da cento euro. Non c'è da stupirsi se tutte le principali tournée europee passano sistematicamente da qui.
Il mio posto è nel settore F, fila 24, numero 15, il palco è un miraggio lontano. Alla mia sinistra ho una coppia di anglofoni, composta da donna che non sorride e da uomo tuttologo che analizza con minuziosa dovizia le installazioni relative a suoni e luce. Alla mia destra ho un'arzilla settantenne coinvolta in un'appassionata conversazione nel più stretto degli svizzeri-tedeschi con una donna più giovane, probabilmente la figlia. Non tace un attimo e sembra chiaro che sta carburando a vino rosso da un po'.
Il concerto inizia alle otto e un quarto, deroga eccezionale all'assoluta puntualità elvetica. Alle prime note di Dance Me to the End of Love, quando Cohen attacca con "dance me to your beauty with a burning violin", l'esagitata alla mia destra si dimena come se fosse ad un concerto dei One Direction, occupando tutta la visione del palco e degli schermi, sia mia che dell'azzimata coppia anglofona. Mettendo subito i puntini sulle i, la decisa donna senza sorriso intima all'esagitata di starsene buona che non vede niente. Mi trovo tra la classica incudine e il classico martello.
Da lontano sembra che Lonard Cohen sia un ragazzino: si muove a destra e a sinistra, si inginocchia, accenna qualche passo di ballo. La sua voce scava fossati di emozioni ed il pubblico si scongela, abbandona la secolare tradizione svizzera improntata alla più assoluta tendenza all'autoflagellazione per mostrare un insperato entusiasmo. La vicina di destra è la capofila. In preda ad un ipercinetismo patologico, si toglie e si mette gli occhiali in maniera compulsiva, passandosi i capelli dietro le orecchie e ripetendo il tutto almeno dieci volte ogni canzone.
Alla pausa, le due donne alla mia destra vanno a fare benzina di vino bianco, mentre la coppia triste alla sinistra passa tutto il tempo a parlarne male e a dirsi a vicenda che dovevano starsene a casa. Il secondo tempo inizia come il primo. Cohen inizia con "I remember you well in the Chelsea hotel", causando profondi brividi alla mia schiena, una crisi di logorrea alla donna alla mia destra e una stizzata reazione dell'anglofono alla mia sinistra che passa un braccio dietro la mia schiena per toccare la spalla della donna e farle sssssssttttttttt portando un dito davanti alla bocca. Il gesto non è proprio da gentleman, ma sortisce l'effetto dovuto e la tipa se ne sta zitta mentre Cohen continua a descrivere la sua avventura di una sera con Janis Joplin ("you told me again you preferred handsome men, but for me you would make an exception"). Ad un certo punto la tipa alla mia destra si appoggia allo schienale, con lo sguardo perso nel vuoto, immobile. Temo che, causa vino ed eccitazione, abbia tirato un colpo, sto quasi per avvertire la figlia che non se n'é accorta. Ma poi si riprende e ricomincia a mettersi e togliersi gli occhiali, indice che tutto è tornato nella norma.
Dopo quasi due ore e mezza arriva Take this Valtz, la canzone ispirata a una poesia di Garcia Lorca. Una scena da film di Boñuel si produce con la naturalezza di un colpo di vento: decine di persone, come colombe dal desio chiamate, lasciano il loro posto e camminano come zombies verso il palco. Alcuni accennano un passo di valzer, altri stanno semplicemente lì, come in trance. Approfitto del miracolo per sbarazzarmi degli anglofoni e della pazza e mi avvicino anch'io, fino a pochi metri dal palco. Sembra di entrare nella musica e nelle parole "ah you loved me as a loser, but now you're worried that I might just win".