E' difficile trovare un motivo (e non è che Al Pacino abbia perso realmente talento, è).
Ma forse chi ha avuto una determinata carriera cinematografica è obbligato a non prestarsi mai a ruoli che superano un certo limite. O forse l'adattamento libero - per non dire stravolto - del romanzo di Philip Roth diretto da Barry Levinson era troppo estremo per il vecchio Al che, ammaliato da una sceneggiatura stratificata e ricca di cambi di tono, tuttavia, non ha fatto in tempo ad accorgersene e a ripensarci.
Oscilla ininterrottamente tra commedia, dramma, sfociando spesso anche nel teatro classico infatti "The Humbling", sulla carta un terreno fertilissimo per l'attore, ma sullo schermo diventa un palcoscenico di umiliazione che per nulla è giustificato dal titolo. La fusione col ruolo affidatogli, di cui necessitava, probabilmente è mal costruita, assente, macchiata da un'ilarità di fondo per niente richiesta e che mal si adatta al contesto allestito. Sta di fatto che più che un'opera di finzione, quella di Levinson diventa presto, suo malgrado, più plausibile come documentario sulla star messa al centro, denigrata e sottomessa a momenti ridicoli della sua vita, poco appetibili da qualunque prospettiva si guardino.
E' poco chiaro, però, quale sia stato il meccanismo (o i meccanismi) che ha impedito a "The Humbling" di funzionare almeno per un minimo o per una parte. Magari rispettare fino in fondo la drammaticità del libro senza fornire spazio a una comicità nociva e poco funzionale avrebbe aiutato a garantirgli sorte migliore. Sicuramente, vista così, l'opera di Levinson e Al Pacino somiglia più a una conferma che ad una certa età con il cinema sarebbe meglio smettere. Tarantino docet.
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