L’ultimo film che vidi lo scorso anno è stato anche uno dei migliori, mi riferisco a “L’amore bugiardo” di Fincher. Quindi desideroso di iniziare questo 2015 “col botto”, “The Imitation Game”, sembra il titolo giusto per dare il via alle nuove visioni in sala. Purtroppo la delusione è sempre dietro l’angolo e se non posso descriverlo come un film poco riuscito, nemmeno mi sentirei di consigliarne la visione, o comunque sottolinearla con le lodi sperticate da molti addetti ai lavori. Ma vediamo perché il lavoro di Morten Tyldum non convince fino in fondo.
Avete presente il detto “giochi intelligenti per bambini deficienti”? Alla base della sceneggiatura di Graham Moore (a cui dobbiamo roba tipo la serie TV “10 cose che odio di te”), questa filosofia impera in ogni dialogo o scena che egli ha scritto (ovviamente il deficiente in questo caso è chi guarda, questa la sua considerazione del pubblico). L’adattamento del romanzo di Andrew Hodges è il classico lavoro di scrittura che deve per forza venir sostenuto dalle performance attoriali (leggasi script povero), o in alternativa da scelte di regia intelligenti e capaci di valorizzare in immagini le più banali sequenze presenti in una pellicola biografica di stampo fin troppo classico (il racconto degli eventi non brilla certo per originalità alcuna). Purtroppo però la storia scritta da Moore, oltre a trattare superficialmente i fatti e spiegarli più e più volte (chi si ricorda le reiterate spiegazioni di “Inception”?), dimentica di essere avvincente e della necessità di creare una attesa nei confronti della scoperta (che è una delle più importanti della storia moderna). Infatti se da un lato il personaggio di Turing è descritto in modo fin troppo stereotipato (e non bastano i riusciti flashback infantili a risollevare la bidimensionalità della sua versione cinematografica), dall’altro le sue scoperte o il modo in cui esso le viveva sembrano quasi essere secondarie. Ci viene sottoposta quindi una storia in cui i cliché del genere “biografia di un genio” ci sono tutti, ma che allo stesso tempo non riesce ad essere incisiva, o quantomeno interessante nella misura che essa meriterebbe (basti vedere in che modo viene trattata l’omosessualità del protagonista). A non aiutare la riuscita del film ci si mette pure la regia incolore di Morten Tyldum, incapace di creare un impianto visivo e narrativo tale da colmare le mancanze di scrittura. Esempio lampante della piattezza registica, lo si può tranquillamente ritrovare nella scena dell’incontro combinato tra il collega Hugh Alexander e l’amica di Joan Clarke al bar, momento in cui Turing comprende dove fino ad allora aveva sbagliato (senza rovinarvi la sorpresa, in quel momento “The Imitation Game” gioca finalmente a viso scoperto mostrando tutti i limiti che fino ad allora aveva cercato di nascondere). Ma non tutto nella pellicola è da buttare, anzi, c’è una cosa importantissima da tenere in seria considerazione, in grado di ribaltarne le sorti qualitative e capace di far ricordare che si sta assistendo ad un film e non una produzione per la TV. Stiamo parlando della straordinaria interpretazione di Benedict Cumberbatch, egli è sublime, semplicemente lui è Alan Turing, ed è pure l’unico motivo per cui la visione di “The Imitation Game” trova un senso. L’attore britannico interpreta il matematico in modo vibrante, ricostruendone posture, gestualità, manie e fobie donando al personaggio uno spessore tale che costringe persino i comprimari di gran classe del cast a farsi da parte.
Il film di Morten Tyldum si rivela quindi una pellicola inconsistente nonostante racconti le gesta di una delle figure più interessanti degli ultimi cinquantanni, incapace di infondere una identità forte ad una pellicola che lo richiedeva. Il merito di “The Imitation Game” (ed è l’unico che egli porta con se) va ricercato nella splendida interpretazione di Benedict Cumberbatch, il quale ha probabilmente dipinto il miglior personaggio della sua carriera di attore fino ad oggi, ed è l’unico motivo per cui valga la visione del film.