Come ogni anno i candidati agli Academy Awards hanno fatto parlare di sé, e non sempre in positivo. Ma se alcune scelte sono state tanto clamorose da far discutere anche i non addetti ai lavori, altre sollevano meno polvere mediatica di quanta meriterebbero. Uno di questi casi è rappresentato da The Lego Movie, ambizioso progetto di Phil Lord e Chris Miller (Piovono Polpette), che ha avuto un’unica nomination: la modesta Miglior Canzone per Everything is Awesome.
Premettiamo che quest’anno in lizza per l’Oscar come Miglior Film d’animazione si trovavano i fiori all’occhiello delle major e non solo: Dragon trainer 2 (DreamWorks), Big Hero 6 (Disney), La storia della principessa splendente (Ghibli), Boxtrolls (Universal/Laika Pictures) e un poetico outsider, Song of the Sea, del regista Tomm Moore, unico film legato a case di produzione minori e indipendenti. The Lego Movie è dunque stato sconfitto da degni rivali (eccezion fatta per il sopravvalutato, nonché vincitore, Big Hero 6; purtroppo contro la Disney non c’è battaglia). La qualità e l’originalità di questo film fanno tuttavia rimpiangere la sua esclusione dalla gara per la dorata statuetta.
Vi sono molti aspetti che distinguono un’opera d’arte di valore da un’opera d’arte mediocre, ma ce n’è uno particolarmente importante, che è la coerenza poetica. In ogni manifestazione artistica, e soprattutto nel cinema, dove una miriade di elementi concorre a uno sviluppo finale omogeneo, è fondamentale avere un concept intorno al quale tutto ruota, come una forza centrifuga dalla quale emerge l’opera nella sua interezza, opera che senza quella forza non avrebbe la stessa potenza espressiva.
In questo senso, The Lego Movie è un capolavoro. L’animazione, i dialoghi, il ritmo, la verosimiglianza, la colonna sonora, tutto rientra in un vortice creativo che definisce uno stile proprio, inconfondibile. Persino lo slang è qualitativamente alto, con battute a tema come “Rest in pieces” (letteralmente Riposa in pezzi), gioco di parole da “Rest in peace”, Riposa in pace. Perfino il cast parla da sé: se attori come Morgan Freeman e Liam Neeson non si fossero trovati di fronte a una sceneggiatura geniale non avrebbero prestato le loro voci a due dei personaggi chiave.
Regia, fotografia e montaggio hanno andamento e colori frizzanti, e come si diceva l’animazione è miracolosa: i mattoncini sono stati minuziosamente renderizzati (sviluppando addirittura un software ad hoc), in modo da ricostruire ogni scenario brick by brick. Prima di procedere, inoltre, gli animatori sono stati provvisti di una scorta di pezzi reali con cui giocare, in modo da studiarne da vicino la meccanica e l’assemblaggio.
È stato persino indetto un concorso per creare un macchinario fantasioso che sarebbe poi stato inserito nel lungometraggio; la vittoria è andata a un buffo cavallo di Troia, che vi sfidiamo a trovare all’interno del film. Sembrerebbe un dettaglio minore, ma non lo è se si considera che la trama è concepita proprio sull’importanza della creatività democratica. E cosa c’è di più democratico che permettere a un fan di fare parte del film?
Il singolo musicale, infine, un pezzo disco ma con alcuni inaspettati inserti hip hop, avrebbe dovuto spiccare sulle concorrenti, tutte di notevole banalità – vincitrice compresa. Tuttavia, da una giuria che aveva premiato Let it go (da Frozen, film di rara piattezza) c’era da aspettarsi di peggio; ad esempio che premiassero la blanda Lost Stars (da Begin Again), cantata dal sopravvalutato Adam Levine. La speranza era che Everything is awesome venisse considerata per il suo brio e la sua coerenza diegetica, sfortunatamente sfuggita all’Academy.
L’unicità smaccata di The Lego Movie è dunque il suo pregio maggiore, ma al contempo anche la sua maledizione: lo spettatore – giustamente – non ci è abituato, e un universo a misura di mattoncino può essere ostico da assimilare a livello visivo, un po’ come lo stop motion prima di Tim Burton.
Il film peraltro non è estraneo a questa tecnica (vecchia quanto il cinema stesso); ma se il raffinatissimo Boxtrolls parte da riprese in stop motion che vengono digitalizzate per risultare più fluide, The Lego Movie fa l’esatto opposto: a un mondo quasi interamente digitale applica a posteriori un ritmo a passo uno.
Ed ecco che di nuovo uno degli aspetti peculiari del film offre il rovescio della medaglia, deludendo i fan più puristi, secondo cui l’utilizzo della CGI (Computer-Generated Imaginery) lo escluderebbe dalla categoria di autentico brickfilm (brick = mattoncino). Un po’ lo stesso disappunto di certi storici dell’arte di fronte alla teoria che Caravaggio utilizzasse la camera oscura: anziché apprezzare l’attitudine poliedrica e sperimentale di questo incredibile pittore, qualcuno ha obiettato che un maestro come Michelangelo Merisi non avrebbe mai “ricalcato”.
Infine, la scelta di mischiare una tecnica gotica come il frame by frame (per quanto digitale) a uno stile pop dovrebbe aver incontrato il gusto americano prima ancora di quello europeo. E così è stato: gli incassi di The Lego Movie sono stati superiori a quelli di Boxtrolls e addirittura pari a quelli di Big Hero 6. Stupisce dunque ancor di più che oltreoceano, dove non si è mai sazi di ambientazioni in vittoriana plastilina, l’originale idea abbia soddisfatto più pubblico che critica.
The Lego Movie è così pop che se Andy Warhol fosse stato ancora vivo avrebbe immortalato Emmet, il protagonista del film, in uno dei suoi celebri ritratti. Emmet stesso è – concedeteci il paradosso semantico – l’anima del pop: è un signor nessuno, sorta di beta-personaggio Lego, con capelli standard e nessuna qualità particolare, se non una gioia di vivere da manuale. Eppure Emmet si troverà a dover salvare il mondo, prima credendo di essere speciale e infine scoprendo – spoiler – che chiunque è speciale e può fare la differenza, se ci crede.
Anche nella morale quindi il film è innovativo, poiché riserva fiducia e speranze nella coscienza del singolo, e non in qualche melodrammatica profezia o ideale standard a cui qualcuno più di qualcun altro riesce ad allinearsi (chi ha detto Disney?).
In questo film non mancano nemmeno elementi mistici, espressi in maniera assolutamente geniale. Uno su tutti, l’ipotesi che esista The man upstairs (L’uomo di sopra) sorta di divinità per i personaggi, che poi sarebbe – spoiler – l’umano, il Creatore che li assembla. Nel film il Creatore si sdoppia, acquisisce due livelli di lettura: uno è il bambino, la cui originalità non è ancora intaccata dal pensiero razionale, e l’altro è il padre, molto meno spontaneo, che appare per la prima volta controluce proprio mentre scende le scale. Questo inserto di cinema dal vero su cui alcuni detrattori di The Lego Movie storcono il naso pone inoltre il film su due piani paralleli, dove la vicenda umana si combina a quella artificiale grazie a un montaggio alternato efficacissimo e un po’ commovente – spoiler – poiché anche il cattivo ha il suo momento di gloria. Inoltre, l’happy ending non si basa su una conversione del villain Lord Business (cioè Will Ferrell, anche padre del bambino), bensì sul suo capire che collaborare non significa uniformarsi, e che si può creare qualcosa di unico anche se non si è gli unici a crearlo.
Insomma, per una volta in cui Hollywood aveva mostrato una certa selettività, l’aver escluso The Lego Movie è fatto ancor più clamoroso. Ma per accorgersi che in un film dove perfino il graffio sotto il piedino del protagonista non viene trascurato davvero everything is awesome, forse ci vuole solo lo sguardo di un bambino. O di una bambina.
Written by Silvia Roncaletti