Credo sia trascorso un anno dalla mia ultima recensione cinematografica. Sicuramente ricordo l’ ultima che avrei voluto scrivere ma che saltai, non so dire il perché, forse fu solo pigrizia.
“Under the skin”, se siete curiosi, decisamente il miglior film che vidi l’ anno scorso. A pensarci bene non avrei potuto scrivere nulla che potesse spiegarne l’ effetto catartico provocato dalla visione. Già, sarà stato questo. Oltre alla pigrizia naturalmente.
Su “the Lobster” cosa posso dire che già non sia stato sviscerato in recensioni che peraltro non ho neppure letto. Diciamo che posso solo immaginare cosa non abbiano scritto gli altri.
Se non avete visto Kynodontas, film dello stesso regista (Yorgos Lanthimos), difficilmente capirete quanto per lui contino i cani come simbolo allegorico e come il greco li prediliga per narrare la pochezza umana in generale. Quindi guardatevelo prima di “the Lobster”. Poi fate come vi pare, io vi ho avvisato, che di cani ve ne sono parecchi anche qui. Dopo questo preambolo posso dirvi scodinzolando e sbavando sulla tastiera che gran bel film, cazzo!
Certamente non è un film sull’ amore, come il trailer c’ inganna.
In un universo parallelo, un’ altra dimensione o chiamatela come volete, se non sei in grado di legarti sentimentalmente ad un’ altra persona convolando a rapide nozze, puoi scegliere solo tra due alternative: o farti trasformare in un animale a tua scelta, oppure decidere l’ esilio nei boschi, vivendo in branco con altri singles, banditi dalla società civile e matrimoniale, per questo cacciati fino all’ inevitabile cattura, per essere poi trasformato nell’ innominabile animale che nessuno vuol essere (forse un’ oloturia?). Insomma, alla fine sempre lì si finisce, perderai il “privilegio” dell’ umanità. Che poi, sai che gran perdita… ma questa è un’ altra storia.
Il protagonista, come il titolo anticipa, sceglie l’ aragosta come traguardo per il proprio fallimento amoroso.
Forse la domanda che ogni spettatore dovrebbe porsi a questo punto è perché venga scelta proprio l’ aragosta come allegoria esopica dal protagonista. Dimenticandoci ovviamente delle apparenti giustificazioni fornite dallo stesso al momento del questionario.
Un’ idea me la sono fatta.Tra i primi esercizi fisici praticati durante l’ ora di ginnastica alle elementari, la maestra chiedeva di imitare il movimento degli animali. Ricordo che il passo dell’ aragosta significava procedere all’ indietro. Sembrerà banale, ma andare all’ indietro non è mai stato sinonimo di evoluzione, semantica del successo o movimento del progresso. Anzi.
In effetti, se pensiamo ai passi del protagonista, vediamo solo tanti ripensamenti. Mai una strada percorsa fino al traguardo, qualunque esso fosse. Ad un certo punto, quando il gioco si faceva duro, ecco la fuga. Il passo indietro appunto.
Diciamocelo, le realtà sociali in cui si trova ad interagire il protagonista sono allucinanti, fatte di dogmi e restrizioni, dove la fuga sicuramente sarebbe stata anche per il sottoscritto la prima soluzione, selezionata tra le cose da fare prima di subito. Ma è anche vero che a forza di fuggire, non si arriva da nessuna parte e che camminando all’ indietro non sempre rincominci dal punto di partenza ringiovanito e profumato. Rischi di perderti pericolosamente e sempre più vecchio.
Sul finale aperto poi… aperto non lo è affatto. Credo a questo punto ci sia poco da dire: se al momento cruciale scegli sempre la retromarcia? Non ci sono dubbi al riguardo.
Concludo con una similitudine drammaturgica? Prendete un film di Wes Anderson, farcitelo con il cinismo di Michael Haneke e la crudeltà di Takashi Miike. Ecco, peggio. La scena del suicidio fallito è terribile.
Buona serata all’ aragosta.