Dall’altra stanza, nel buio solitario raccolto intorno al suono del pianoforte, è appena percepibile la sagoma delle infermiere, chine sul tavolo a raccontarsi le loro storie.
Le vetrate aperte sul mondo restituiscono intatti i bagliori della notte, confusi con la luce al neon e l’aria appiccicosa nel lungo corridoio, procurata dalle sigarette fumate di nascosto, da bottigliette di plastica vuote, aroma di caffè forte, sudore residuo del personale di servizio.
Non c’è traccia della presenza dominante dei medici, che hanno riversato parole fino a dieci secondi prima dell’orario di uscita. Le terapie devono essere riviste, gli esami strumentali non sono ancora arrivati, la connessione wi-fi cade continuamente: eppure si riesce sempre, contro ogni previsione, a terminare le riunioni del giovedì con la consueta indiscrezione politica e il tempo previsto per il week-end.
Non c’è traccia umana, a ben vedere, a quest’ora. Siamo fantasmi, voci sussurrate.
Mancano pochi secondi alla fine del brano e il cenno di Mara, l’educatrice che trascorre la notte al piano di sotto, indica con gentilezza discreta la tazzina e la bustina di zucchero.
Bello sentire Keith così lontano dai furori geniali e capricciosi delle sue improvvisazioni, immerso in queste note calme, accorate, così private. Come un letto sgualcito e caldo che qualcuno ha lasciato da poco.
(1. continua)