Nato nel 1956, il filmaker Yoshihiko Matsui (松井良彦) non è certo una figura di spicco nel variegato panorama cinematografico giapponese. Le sue tematiche, spesso ritenute inappropriate, gli hanno infatti precluso ogni speranza di ottenere dei riscontri positivi, non solo da parte del grande pubblico e della critica specializzata (figuriamoci), ma anche da parte da parte di quel sottobosco cyberpunk che, in quegli stessi anni, ha contribuito al lancio di un nome oggi mitico qual è quello di Shinya Tsukamoto (塚本 晋也), il padre di Testuo, Bullet Ballet, Snake of June e molti altri.Già con il suo film d’esordio, Rusty Empty Can (錆びた缶空, Sabita Kankara), datato 1979 e incentrato su un triangolo amoroso omosessuale, il solco era tracciato. Il suo incontro con Sogo Ishii (石井 聰互), che avrebbe avuto in seguito un discreto successo nel cinema indipendente, lo portò alla realizzazione, come assistente alla regia, del lungometraggio low budget Crazy Thunder Road (狂い咲きサンダーロード, Kuruizaki Sandā Rōdo), una futuristica storia di scontri tra bande rivali (molto simile ai Warriors di Walter Hill, ma con le motociclette) che, sebbene oggi sia considerata un cult, all’epoca venne funestata da pesanti critiche sia da parte della destra oltranzista sia da parte della comunità gay. Yoshihiko Matsui si diede alla macchia per riapparire solo otto anni più tardi con questo The Noisy Requiem (追悼のざわめき, Tsuitō no Zawameki), che ad oggi rappresenta indiscutibilmente l’apice della sua carriera artistica (una carriera che, ahimè, lo vedrà dietro alla macchina da presa solo una volta ancora, nel 2007, dopo un ulteriore silenzio di quasi vent’anni).
I personaggi principali si ritrovano tutti, prima o poi, attorno ai magazzini di una stazione, lo stesso luogo dove si trova un edificio la cui terrazza è stata scelta da Iwashita come “casa”. Quella che in un primo momento pare essere la storia di un assassino sociopatico, che prova piacere nel mutilare, si trasforma nel disturbante ritratto corale delle varie facce delle disperazione: da un lato, quella di personaggi completamente estranei alla cosiddetta normalità sociale, abbruttiti dal punto di vista fisico (come i due nani) e/o psicologico e morale (Iwashita, il senzatetto), dall’altro quella di persone dal percorso terreno, per sfortuna o per scelta, non convenzionale (i giovani amanti in fuga dalla famiglia). I loro bisogni e desideri sono strani, immorali, come la ricerca di sesso spesso spasmodica, che forse altro non è che una ricerca di comunione carnale con un altro essere laddove quella spirituale è o sembra preclusa, forse è nient’altro che la tensione verso una forma d’amore, l’unica possibile. Ed ecco per esempio che Iwashita (ex soldato e nazionalista, questo il poco che si sa di lui), che odia le donne, prende come compagna un manichino, che però tratta come una donna in carne ed ossa: le mette un anello al dito, le prepara un “talamo nuziale” e cerca di renderla madre per formare con lei la grottesca caricatura di una vera famiglia. Questa carrellata di personaggi che rappresenta il “lato oscuro” della società giapponese si muove nell’ombra, (soprav)vive accanto a coloro che hanno una vita normale in una casa normale, con amori normali, inconsapevole o indifferente a quest’altra vita che gli scorre a fianco (e viceversa). E parallelamente si fa strada l’idea che la società tutta sia marcia, malata (vedesi gli uomini che si eccitano alla vista del corpo della ragazza nana perché gli ricorda quello di una bambina, sebbene sia orribilmente deturpato da cicatrici, o le donne anziane e le altre persone che la deridono sull’autobus, eccetera): al mondo non c’è bontà, né bellezza né armonia, se non quella insita nella natura (in una giornata d’estate, nella pace di un prato assolato).In una società dove ci si aspetta che ognuno abbia un posto ben preciso queste persone costituiscono un’anomalia, eppure forse, semplicemente, la vita è vita e non c’è differenza tra una vita bella e una brutta, perché entrambe hanno la stessa probabilità di risultare felici o infelici. La coppia di nani, nonostante la disponibilità economica, è infelice al punto da non voler nemmeno concepire l’esistenza dell’aldilà (la sorella è prigioniera tanto quanto l’uccellino che tiene in gabbia). Iwashita invece è felice e fa progetti per un futuro con sua “moglie” e con il “bambino” che sta per nascere.
Com’è facile intuire, alla fine a prevalere è il caos, o meglio il caso. [SPOILER] Iwashita finisce vittima di un banale incidente, mentre la ragazza nana manda in fumo la terrazza dopo avere, in una delle scene più surreali del film, fatto “abortire” il manichino; la morte divide la sorella e il fratello e la coppia di amanti [FINE SPOILER]. Sono epiloghi tragici, apparentemente senza senso per vite altrettanto banali, perché la vita raramente è eccezionale o epica, più spesso è una sequenza di atti ripetitivi, monotoni, senza peso, proprio come in questo film vengono ripetuti atti, parole, scene, forse non più tristi e squallidi di quelli messi in scena dalla “gente normale” che resta sullo sfondo, solo colmi di una disperazione di fondo scaturita da menti che nel profondo sono consapevoli della propria diversità. Per nulla rassicurante, ma sento che c’è qualcosa di ben più profondo nell’opera di Matsui di un semplice inno alla diversità e all’emarginazione. Qualcosa che forse ha pienamente senso solo per chi i luoghi del film li conosce o li ha conosciuti davvero. Il fatto che The Noisy Requiem abbia fatto capolino una sola volta oltre i confini del suo paese (con dieci anni di ritardo, in Danimarca), ma immediatamente ritirato, per volere dello stesso regista, potrebbe essere un indizio.