Il libro della Otsuka, al suo secondo romanzo, il primo pubblicato in Italia, è preciso, secco, senza fronzoli, minimalista nello stile, umanissimo nel contenuto. Il fatto stesso che sia scritto da una donna, per me che mi accorgo aver letto pochissima letteratura femminile negli ultimi anni, è già di per sé un'esperienza straniante, dunque significativa, non sempre comprensibile fino in fondo, per una questione di sensibilità, di appartenenza alle cose e alle parole.
Eppure in The Buddha in the Attic c'è un passaggio che descrive qualcosa che riguarda tutti i lettori, uomini e donne che siano, che coglie il senso della diversità, della distanza che corre tra lo sguardo di due mondi distanti e all'apparenza incapaci di comunicare. Una frase che nel breve spazio di una riga illustra quanto possa essere scioccante la lettura, quanto possa farci sperimentare l'alterità e la realtà del mondo.
La dicono, questa frase, idealmente e magicamente all'unisono, le ragazze giapponesi in viaggio verso gli Stati Uniti, fantasticando a proposito del continente sconosciuto che andranno ad abitare: un continente dove gli alberi sono enormi, le pianure vastissime, le donne forti e alte; dove i libri si leggono al contrario e dove il sapone si usa per il bagno. Un continente dove, scrive la Otsuke a proposito delle paure delle sue donne fragili e vere, "the opposite of white was not red, but black".
Ecco, insomma, forse la potenza espressiva di questo passaggio ha un senso solo per me o per chi non ha mai saputo che nella cultura giapponese il rosso è il contrario del bianco, e chissà allora cosa rappresenta il nero. Forse è normale che sia così. Ma The Buddha in the Attic è pieno di momenti illuminanti come questo. Illuminanti da una prospettiva insolita, come una fonte di luce inattesa, da sempre viva, ma mai notata. Anche solo per questo merita di essere letto.