Gareth Evans ha qualcosa da insegnarci, qualcosa che si rifà alla tradizione più classica della narrazione: le unità aristoteliche.
Che una lezione del genere venga da un regista giovane e da una produzione, The Raid: Redemption, indonesiano-statunitense, non fa che aggiungere valore al tutto.
In The Raid c’è, dunque:
unità di luogo: un condominio di quindici piani, fortezza di una gang di spacciatori di droga, che rammenta desolanti sobborghi noti anche a noi italiani
unità di tempo: il tutto di svolge in poche ore
unità di azione: tutto è focalizzato sul raid e sui motivi dello stesso, annullando qualsiasi trama secondaria.
Il risultato è perfetto.
Aristotele e i rinascimentali la sapevano lunga. E la sanno lunga anche questi signori.
Film d’azione che ridefinisce i canoni rifacendosi a quegli stessi, ormai dimenticati da troppo tempo. Nessuno sbrodolamento, nessuna pretesa di approfondimento psicologico laddove è stupido che ci sia, nessun buono sentimento ipocrita e posticcio, nessunissima pretesa di moralizzazione spiccia, tanto cara al nostro cinema e, soprattutto, nessuna identificazione.
Solo un folle può identificarsi con uno dei protagonisti del raid.
Eppure, eppure quelli cresciuti negli anni ’80, come me, si identificano lo stesso.
Si avverte netta, oltre al classicismo delle fonti, anche l’influenza videoludica. Uno per tutti: Double Dragon. Un videogioco sul quale ho speso migliaia di vecchie lire, in partite che duravano mattine intere.
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Lo scopo del raid, affidato a una squadra SWAT di una ventina di unità, è penetrare in un edificio-roccaforte della mafia indonesiana, e rapire il capo della banda. Un’azione veloce, dimostrativa, condotta con forza e ferocia, per aiutare la giustizia ad arrivare laddove attraverso le carte non riesce.
Gli ambienti sono chiusi, a partire dalla camionetta che trasporta la squadra, continuando con la fotografia che si stringe attorno alle sagome degli attori sotto una pioggia di fuoco e botte, per finire andando a insinuarsi in spazi architettonici angusti, fino alle doppie pareti, ultimo nascondiglio per salvarsi la pelle.
Double Dragon, spettacolarizzazione della violenza, ma, ancora una volta, influenza classica: dal momento in cui la SWAT entra nell’edificio la situazione, è subito chiaro, precipita. Il boss può contare sulla volontaria assistenza di tutti gli abitanti del palazzo, criminali anch’essi o semplici desiderosi di guadagnare punti e rispetto in seno all’organizzazione, massacrando un po’ di sbirri in tenuta da battaglia, giubbetti anti-proiettile, elmetti e fucili automatici con silenziatore. L’incursione diviene ennesima applicazione dell’Anabasi di Senofonte, col gruppo dei superstiti che deve aprirsi un nuovo varco, stavolta verso l’esterno, verso la salvezza.
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C’è un unico breve accenno alla vita familiare di uno dei protagonisti, che a casa ha la moglie incinta che l’aspetta; dettaglio talmente breve, per quanto motivante, che viene presto accantonato dalla potenza delle immagini a cui si assiste.
Due sequenze, in particolare, risaltano: un scontro a fuoco attraverso due piani, con tanto di pavimento sfondato e incursione nel piano inferiore, dove lo scontro diventa corpo a corpo forsennato e si conclude con un frigorifero imbottito di bombola al metano e fatto saltare.
E poi uno stand-off in corridoio a colpi di machete. Uno contro tutti in un duello veloce e spietato.
Per accennare soltanto a tutti i combattimenti negli appartamenti, con oggettistica d’arredamento usata come arma, gente sbattuta sui muri, contro i frigoriferi e i pensili.
Cosa che ho apprezzato è che Evans non insiste nei dettagli truculenti, pur essendo i combattimenti estremamente realistici e letali.
Nessuna budella gratuita, quindi, e ciò non toglie l’ora e quaranta di The Raid scorre rapida che neanche te ne accorgi.
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Ennesima bloodshed, carneficina asiatica, in cui ci si interroga spesso sull’effettiva plausibilità della resistenza fisica sfoggiata dai protagonisti, che affrontano decine di avversari, come per i 13 Assassini, ma è un dettaglio di poca importanza. Come per il film di Miike, i dubbi vengono messi da parte e volentieri per perdersi nella baraonda, dove pochi attimi di tregua non sono altro che preludio per l’ennesimo stand-off, sempre più sanguinoso, sempre più disperato.
Colonna sonora azzeccatissima, coreografie a base di Pencak Silat, arte marziale veloce e letale, pratica, impiegata dai reparti militari e una serie di villains che davvero sembrano usciti da un videogame, vestiti di magliette sporche, come rapper da quattro soldi, collane, bracciali d’oro e machete lunghi quanto un avambraccio.
Epico. E consigliatissimo.
special thanks to Lucy
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