The sky crawlers

Creato il 04 settembre 2014 da Jeanjacques

Quando lo spettatore medio inizia ad appassionarsi agli anime, la prima cosa che lo colpisce è come i nipponici abbiano proprio un altro modo di intendere l'animazione. Perché lì i cartoni animati [fatevene una ragione, sono dei cazzo di cartoni animati e il termine anime serve solo a definirne la provenienza] non sono unicamente destinati a un pubblico per bambini, ma vengono intesi proprio come media a se stante e perfettamente autonomo. Come esiste cinema d'autore, per adulti e commerciale, lo stesso va a dirsi per l'animazione, che assume diverse forme artistiche e simboliche. Una volta concepito ciò e dopo aver visto i capolavoroni che ogni otaku dovrebbe vedere, però, ci si rende conto di una cosa: anche i giapponesi sono umani. E che tutta quella meraviglia che ci aveva inizialmente entusiasmato è una piccola goccia in un vasto mare che, proprio come succede a Hollywood, è zeppo di mediocrità e cattivo gusto. Come una qualunque cosa che fa parte di un businnes e viene quindi massificata. Alla fine non si pesca più alla cieca, fiduciosi del risultato [o di quello che trasmette MTV - bei tempi, quelli], ma si vanno a reperire le opere di quei solite tre autori noti che diventano una sorta di certezza personale. Era stato con questa idea che ero andato a cercarmi questo particolare anime a diciotto anni, mettendo una definitiva pietra tombale sopra il mio triste status di jappominkia che mi aveva orribilmente segnato per gran parte della mia adolescenza - lo so, ho avuto una vita di merda.

Siamo in un presente alternativo, dove è in atto una guerra mondiale voluta dalle multinazionali delle armi e condotta dagli ordini degli stati coinvolti. Questa guerra però non è combattuta dai cittadini, ma dai kildren, cloni destinati a mantenere sempre un aspetto di ragazzi e il cui compito è quello di fare da pedine in quel conflitto, reso alla stregua di uno show televisivo da seguire.

Il tutto è tratto dai libri di Hiroshi Mori, omonimo di un astrologo giapponese scopritore di quarantadue asteroidi, che nelle terre dell'estremo oriente sono un oggetto di culto ma che qui da noi sono pressoché sconosciuti, oltre che totalmente inediti. Questo ha dato parecchio potere contrattuale all'autore, che per anni si è sempre rifiutato di vedere trasposta sul grande schermo quella che doveva essere la sua opera più difficile, sciogliendosi solo quando il celeberrimo Mamoru Oshii, del quale è grande fan, si era detto interessato alla cosa. E come si fa a tirarsi indietro quando quello che ha diretto Ghost in the Shell, Innocence e Avalon vuole fare un film dai tuoi libri? Ovvio che non puoi. Quindi il film è stato eseguito ed è uscito nelle sale, godendo addirittura di una distribuzione quasi immediata (anche se solo in dvd) pure in Italia e di una programmazione piuttosto frequente su Rai4. Ma alla fine quello che ne è venuto fuori è un bel film? Non il migliore di Oshii, ma è comunque una pellicola che merita di essere vista più volte, se non altro per cercare di comprendere tutti i messaggi insiti nei vari passaggi. perché anche se non è il suo lavoro migliore [è un po' brutto da dire, ma si corre il rischio di vivere all'ombra delle avventure della Sezione 9] è sempre un film di Oshii, la qual cosa include anche dei tempi narrativi piuttosto lunghi che possono rischiare di far cadere la palpebra allo spettatore meno esigente e delle tematiche di un certo peso che vanno affrontate con un coraggioso senno. Qui si cerca di fare un brodo piuttosto gustoso mettendoci dentro più cose possibili, anche senza arrivare agli eccessi del sequel del proprio capolavoro, ma se non altro si usa la sempreverde formula delle agenzie turistiche: dove siamo, dove adiamo, cosa facciamo. E infatti il fulcro di questo film è il cercare di dare una risposta al quesito per eccellenza che sta dietro non solo si due film sull'ispettore Motoko Kusanagi fatti da Oshii, ma alla narrativa tutta: chi sono io? Si prendono quindi dei personaggi che hanno un'identità fittizia, delle persone che conducono una vita in quelli che dovrebbero essere degli schemi prestabiliti e neutrali. Loro solo solo pedine, di essi sopravviverà solo l'ultimo eco prima che un'esplosione li finisca, per dare posto poi a qualcun'altro che ripeterà le stesse mosse e gli stessi piani. Non c'è una vera guerra in corso, anche l'esito dei conflitti è comandato e, di fronte alla conoscenza di questa verità, ha ancora senso il cercare di condurre una vita? Forse la vita non è quello che è realmente, sembra volerci suggerire Oshii, forse la vita è come l'intendiamo noi. Alla fine le vere catene sono quelle fisiche, ma quelle mentali, quelle che ci impediscono di avere uno slancio che possa dare personalità e carattere al nostro vissuto. Questo è il significato che ho colto in questo film, uno dei tanti che si barcamenano in una moltitudine di analogie e metafore, e che mi ha fatto davvero piacere molto questa pellicola. Che però non è esente da difetti, che fra le prime cose annovera senza dubbio una lentezza davvero esaustiva che in certi punti sembra non condurre proprio a nulla una storia già non molto movimentata di suo, oltre a un character design che non mi è piaciuto per nulla - ma qui si va molto a de gustibus. Ottimo invece il comparto tecnico delle animazioni computerizzate, veramente realistico e spettacolare, che permette alla regia di fare delle vere e proprio sboronate tecniche in grado di lasciare a bocca aperta. Ma su tutto invece risuonano, è proprio il caso di dirlo, le magnifiche musiche di Kenji Kawaii, abituale collaboratore del regista.

Non lasciatevi sfuggire la scena dopo i titoli di coda, un furbo riutilizzo molto risparmioso che però permette di avere una lettura lucida e spietata su una storia altrettanto crudele e disillusa.

Voto: ★ ½

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