Dopo una lunga gestazione, durata circa 9 mesi, il nuovo album vide la luce nel bel mezzo dell’estate del 1969 con il titolo di The soft parade. Pubblico e critica rimasero sconcertati dal nuovo sound, costruito con largo utilizzo di arrangiamenti orchestrali, sezione fiati e altri strumenti in antitesi al suono psichedelico ruvido e graffiante dei precedenti lavori. Da più parti si levarono le accuse di tradimento, di imborghesimento, di commercializzazione. Nonostante ciò, le vendite andarono abbastanza bene, sia per l’album che per i numerosi singoli estratti, con Touch me che arrivò fino al terzo posto di Billboard. Un album che, aldilà dei giudizi personali, anche a distanza di 45 anni, continua ad apparire come un corpo estraneo nella discografia dei Doors, un ritorno all’ordine poco convinto e convincente,un tentativo di autocelebrarsi e consegnarsi all’accademia che, se da una parte legittima le accuse dei puristi di imborghesimento, dall’altro fiuta e anticipa due stili che, da lì a pochi mesi, avrebbero colonizzato non solo la scena del rock più avanzato, ma anche quella del jazz più aperto: il Progressive e la Fusion. Come non leggere in questo modo il brano di oltre 8 minuti che chiude e battezza l’album, una suite sintetica costruita su frammenti intersecati, caratterizzati da repentini cambiamenti di ritmo, in un’atmosfera da Broadway post-apocalittica, in cui si recita una comedie humaine di automi e di maschere; come non leggerci il germe di quella che sarebbe divenuta la struttura portante della composizione progressive?
Il brano The soft parade, a mio parere uno degli esiti più alti dell’intera discografia dei Doors, non è l’unico motivo di pregio dell’album. Nonostante i cospicui contributi autoriali di Krieger, The soft parade è il disco in cui meglio si dispiega la doppia teatralità di Morrison: quella sacrale e spirituale che trova la sua epifania in un brano tipicamente morrisoniano (oserei dire, il più morrisoniano di tutti) come Shaman’s blues, ma anche in due brani del chitarrista, quali Do it e Wild child (probabilmente tra i punti più deboli dell’album, ma validi comunque, oltre che per la performance di Morrison, per la prova di perizia e affiatamento di Manzarek, Densmore e Krieger); l’altra teatralità, quella più politica e sociale, quella del capopopolo e del contestatore radicale, si manifesta istrionica, oltreché nella title track, nei brani krigeriani Runnin’ blue, Touch me e Tell all the people, ma anche in Easy ride, in cui Morrison riprende il sarcasmo profetico sulla deriva consumistica del movimento hippie, già palesato in Five to one del precedente album. Il Re Lucertola trova anche il modo di giocare, tra la vanità e l’autoironia, con le sue indubbie doti da crooner, con il brano romantico e crepuscolare Wishful sinful, anch’esso di Krieger. I suoi testi abbandonano l’immediatezza del passato, tanto adatta al rock, per svilupparsi in chiave simbolica o genericamente rappresentativa e raggiungere una resa letteraria autonoma. Krieger, seppur privo di originalità melodica, si dimostra in grado di strutturare canzoni in modo intelligente e competente e ben adattabili alla personalità di Morrison. Nel complesso, i Doors realizzano un album che aggiunge poco o nulla al loro bagaglio stilistico e creativo, ma che rimane comunque un esempio di manierismo di alta qualità, che cristallizza una band nel pieno della sua forma tecnica (a parte qualche giro a vuoto di Jim) e cavalca in anticipo le tendenze che avrebbero dominato per buona parte degli anni settanta.