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The Sorrentino Post – news dalla Grande Bellezza americana di Alessandro Gabriele

Creato il 02 aprile 2014 da Wsf

[Antefatto Bollywood-like: Se sei italiano e ti occupi di comunicazione oggi, non dico nemmeno di “cultura”, Paolo Sorrentino deve per forza sembrarti una specie di cometa numinosa che passa, uno di quegli asteroidi che non ha ancora deciso se sfiorarti solo dall'alto o centrarti invece in pieno. E' in odore di divinità che dovresti comunque inscrivere il fenomeno, muoverti, prenderlo, spolverarlo, alzarlo e metterlo con cura in qualcosa di simile a quegli opulenti altarini da viaggio che tengono i veicoli indiani sotto il parabrezza, e andartene via di casa in un itali-hindi sentimental mood con Shiva, Laxmi, coroncine di fiori profumati, Taj Mahal in scala, Colossei di plastica che s'illuminano e Sorrentino sorridente in mezzo a una folla di fedeli sciamannati, braccio fuori dal finestrino e Raffaella Carrà appalla, muoversi al ritmo, “a far l'amore cominci tu”, una preghiera e uno sputo di betel rosso sanguigno sulla macchina del vicino, mentre il paese di ogni Traffico ti viene addosso inchiodandoti con la puzza e la merda in strada, senza nemmeno avere più a conforto la cultura dei millenni che sopravvive e fa sopravvivere, invece, quel caotico fratello speculare che abbiamo nel subcontinente indiano.]

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Adesso che premi e commenti sono stati assegnati e ognuno s’è schierato manovrando opinioni, ipocrisie, celie, fondato interesse, ansia culturale o semplice curiosità, si può rimettere in luce con un po’ di calma La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino, chiudere il ciclo di questo boomerang e andare anche un po’ oltre, forse.

Credo d’aver capito senza rifletterci molto infine, per semplice sfregamento mediale delle tante che ho letto al riguardo, che il film sia un sincero capolavoro. Ci ho messo tanto a convincermi, dopo che la sera in cui tentai di vederlo caddi addormentato dopo una mezz’oretta appena di non-narrazione.
Ho amato molto la risonante potenza simbolica de: L’Amico di Famiglia, la narrazione semplice e ossessiva di un personaggio disgustoso e del suo dettaglio geniale, quella maledetta sacchetta oscillante fissata alla cintura. Le Conseguenze dell’Amore l’ho trovato avvincente, poetico e bellissimo, una lenta ballata sottomarina sulla fuga dell’identità. Alla visione de: Il Divo, è mancato poco che m’alzassi dalla sedia per applaudire a scena aperta, tanto ricco di genio visivo e narrativo m’era apparso quel film. Davanti alla Grande Bellezza sono arrivato invece prevenuto, dopo aver passato l’esperienza americana di Sorrentino con Sean Penn, che mi aveva fondamentalmente deluso.
La Grande Bellezza è forse la prima compiuta e consapevole opera italiana sulla post-modernità che ci vive, perchè è questo esattamente il paradosso, la cultura americana ha diffuso il concetto del “post-”, lo ha osservato e narrato e sta anche andando oltre.
Siamo noi italiani, unici al mondo, quelli che invece sto post lo viviamo concretamente nello sprofondo della storia e della civiltà da cui veniamo tanto quanto oggi nel quotidiano dei giorni, nell’attualità dei fatti che ci capitano. Ci siamo suicidati nei millenni con la cura certosina degli esaltati fino a perdere il concetto di cultura, ovvero le funzioni che muove, la realtà che trasforma, oggi il meglio che può dirsi di noi è qualcuno che pensi ancora la cultura come una bella scultura da mettere in una teca illuminata, possibilmente a pagamento, ma anche di questi qualcuno ne son rimasti pochi.
Il film, in sé, gode di una magnifica scena iniziale che è perfetta e dice tutto. Nelle sequenze di ballanti e ballati, nelle luci, nell’aria, nelle facce, nel trapano dance della Carrà che cementa l’immagine, una ribollente Guernica tricolore che esce dallo schermo per comprenderti sotto braccio come si fa con un paesano timido e ritroso. E taglia e allude e ritma e sottoscrive e dice talmente bene che non servirebbe davvero altro minuto di narrazione tantomeno altra nota di commento.

[Intervallo utopico: questo dovrebbe essere il Cinema, una specie di oracolo di Delfi moderno. Tu paghi il biglietto ed entri in sala, senza sapere cosa t'aspetta, col fatto che la proiezione potrebbe durare dieci minuti come duecento, in piena libertà espressiva, e col fatto che la par condicio dei sentimenti richiede che si “sorteggi” tra lieto fine, chiusa ambigua o sfacelo indigeribile che sia, a insindacabile giudizio dell'autore. Nessuna pietà per gli eroi-sentimenti monoblocco. Solo così, scardinando il contesto amorfo del -pago otto euro pretendo (e m'aspetto)-, il Cinema potrebbe davvero mettere in moto qualcosa di vivo e autentico nel cuore degli spettatori.]

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In realtà, il primo motivo fondante di un capolavoro è sempre la messa in riga delle coscienze, e Sorrentino c’è riuscito in maniera clamorosa, ha messo in fila e in connessione tutti, senza distinzioni di classe, tutti insieme e in ogni luogo, in Italia e nel mondo, quelli che lo vivono, quelli che ne parlano e quelli si distaccano. Parliamo di: presidenti del consiglio, bigliettai, tromboni intellettuali, fanatici dei forum, rumeni arrivati ieri, esperti di cinema, calciatori, preti, semplici passanti, casalinghe, fin dentro i gruppi neo-etnici da finestra sociale, tipo: il Popolo di Roma che, con perfetta discognizione di causa, ha più volte “dichiarato”: Ahò, noi la Grande Bellezza ce l’avemo e ci vivemo, voi blablabla, rosicate!!!!!!
E qui entrano in ballo gli americani con l’Oscar, che per il film straniero non è mai dato a caso. Loro sono pragmatici, sanno che gli Oscar in casa devono sottostare ad alcune regole mainstream, in quelli fuori casa dimostrano invece sempre l’intelligenza di lettura che hanno.
Ma chi sono sti americani, e cosa hanno precisamente visto dentro la Grande Bellezza, oltre il banale mediale che già s’è detto.
Intanto, contro i nostri tre millenni, gli americani sono tali da nemmeno tre secoli. Parliamo di gente in gran parte socialmente deviata che fu mandata alla ventura in un altro continente, gente che collettivamente, invece di deprimersi o esaurirsi sul posto in un fuoco di guerriglie psicopatiche, mise le proprie tare al servizio di un sogno di conquista civile generando, forse, il primo autentico mito della modernità.
Erano scarti, sono stati corsari, conquistatori, Bounty Killer, schiavisti, profondi riformatori, inventori di sommovimenti giovanili che hanno riscritto il limite sociale, poi ancora padroni arroganti del mondo, poi ancora, oggi, hanno inventato e subito la crisi fino a perdere di nuovo il timone reale del pianeta.
Nel frattempo hanno sviluppato una società ricca di contraddizioni e un humus culturale che, invece, rimane di una straordinaria vitalità concreta, propositiva e allusiva. Quando la cultura fa corpo unico, congruente, puoi leggerla dall’alto o dal basso senza perdere nulla del messaggio che trasporta.
“Non è importante che tu cada, piuttosto è come e quante volte ti rialzi che fa valore e differenza”. E questo, qualsiasi nonna americana te lo potrebbe confermare.
Ma anche se ti sposti in alto, vedi questo immenso paese che pullula di laboratori, mostre, dibattiti, letture e rappresentazioni pubbliche, editori e corridoi di pubblicazione a vasto raggio, establishment anche, certamente, ma nel pentagono di Hollywood non si fa mai mancare la sana quota di autorialità indipendente o il “genio” espressivo anticonvenzionale, qualora questo si presentasse, da chiunque.
Gli americani sorgono, crollano, risorgono e si reinventano, e questa è pura vita, laddove noi pratichiamo ossessivamente una specie tutta nostra di pascolo afono, asintomatico, scollegato depressivamente dai sentimenti storici che ci hanno fondato. Insisterei, la vera urna delle ceneri post-moderne sta allungata qui, tra Tarvisio e Lampedusa, mica a Manhattan.
Cosa possano aver visto gli americani tra i pixel della Grande Bellezza sorrentiniana comincia a trapelare.

3

Immaginate un missile di treno superveloce pieno di manager o ex-manager dell’esistenza che sfila rallentando appena su marciapiedi dove la gente ben vestita, ma con incredibile sguardo spento che balugina da dietro gli occhiali scuri, sta ferma sempre nello stesso punto, alle stazioni italiane, ad aspettare un treno che non si ferma più, che se per sbaglio lo facesse verrebbe preso immediatamente d’assalto e saccheggiato. Una specie di Far West stanziale che per forza li manda in palla di fascinazione, gli americani, loro l’hanno inventato il Western, così come i vaccari che cavalcano i buoi selvaggi, ma non hanno invece mai assistito a un rodeo sociale in cui le regole sono metaforicamente invertite, il bovino cavalca l’umano, e soprattutto il bovino vince sempre la gara, col cazzo che si fa sgroppare via da esseri quattrozampe che delegano a Brunetta o Franceschini, alla Binetti o alla Boldrini.
Ci sono realtà raccontabili, molte altre rimangono nel novero dell’indicibile ombroso. C’è qualcosa di profondamente speculare tra noi e loro, comunque.
I “giovani” americani sono abituati a recintare anche pezzetti di “rovine” che hanno trent’anni appena di storia, figuriamoci come possono rimanere nemmeno rispetto a noi, ma agli antichi romani che nella capitale già intorno Cristo potevano vantare la presenza delle rovine dei primi insediamenti tribali al colle Palatino, sette secoli prima.
Ma la “bellezza” non c’entra niente, o quasi.
C’entra assai più, nell’indicibile, la dimensione del “grande”, l’invidia, il fatto che loro siano costretti a ubriacarsi duro per dare sfogo agli istinti più bassi, noi invece siamo un intestino vivente così, naturalmente, e finiamo pure per delinquere assai di meno in strada, che è un grosso problema sociale che hanno loro, invece. Noi delinquiamo tutti ridendo alla Gambardella, nei salotti importanti o in quelli outlet Mondo Convenienza di casa, ai livelli alti di un distillato morale, e ce ne compiaciamo pure.
How they’re fucking doing it, holy shit! Penseranno forse loro, guardandoci.
L’ombra americana ci invidia perdutamente, mentre la loro luce social-puritana ci condanna alla forma peggiore di sberleffo, quel sorrisino condiscendete pizzaemmafia, quell’analogo di occhiata terribilmente suggestiva che si prova per la sfiga altrui quando passi in autostrada e di là c’è un incidente della madonna con schizzi di sangue e traumatizzati che si muovono a scatti come marionette, un sospiro dio-ti-ringrazio per non essere io, e una carezzina in più ai bambini stampati contro il finestrino, e mettici pure un’onesta grattata di maroni che non guasta mai.
E dunque torniamo a finire nel nostro salotto post-moderno.
Il problema del nostro paese è una forma rara di consunzione storica, uno smarrimento di meccanismi narrativi, un’Identità frammentatasi sulle onde degli eventi fino a diventare impalpabile come sabbia, e in questa debolezza attaccabile da perversioni distruttivo-masochistiche, da sentimenti collettivi ancora forti che tuttavia vagano senza ancoraggi generando danni o, nella migliore delle ipotesi, ripetitività e noia, disinteresse.
Messa così, l’Italia equivale all’impianto significante liquido del film di Sorrentino tanto quanto a quello della maggioranza dei romanzi di Don De Lillo o Chuck Palaniuk. Ma un Palaniuk, almeno, i suoi caratteri li ama, gli consente sempre una via di uscita creativa dal disastro che sono. Ed è precisamente questa attitudine diffusa oltreoceano che fa grande e viva e futuribile la ribollente cultura americana.
Così l’America ci ha premiato, infine, ma noi non abbiamo capito bene il perchè e il per come, e continuiamo un po’ a scambiare questa storia per un’epifania turistica davanti al Colosseo.
E intanto, al buio di tutto, la Carrà di Sorrentino insiste a passeggiarci avanti e indietro nel cervello.

4

di Alessandro Gabriele – aereoplanini.wordpress.com


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