Scrivere di un film come The Tree of Life subito dopo la prima visione è una di quelle sfide improbe e impossibili alle quali, a causa delle regole del gioco a cui non è possibile sottrarsi, sono sottoposti i critici cinematografici quando si trovano costretti a giudicare “per direttissima” film tanto complessi, stratificati e poetici. Data la florida ricchezza dell’opera in questione, che si alimenta di un susseguirsi di immagini di una bellezza mozzafiato che per due ore e mezza ininterrottamente sfidano l’occhio a godere del proprio oggetto di visione, l’unica strada percorribile per una prima (e assolutamente parziale) analisi è quella di limitarsi ad indicare una serie di suggestioni che il tanto atteso lavoro di Malick riesce a suscitare in chi guarda.
Con ogni probabilità il film non verrà compreso da molti e altrettanti ne saranno annoiati. O forse, più semplicemente, sarà visto da pochissimi all’infuori di quegli amanti del cinema che per definizione ammirano Malick da decenni nonostante la sua così esigua produzione (cinque film in trentotto anni, con un sesto in uscita forse l’anno prossimo). È evidentemente un film per pochi, The Tree of Life: per quei pochi che amano andare al cinema per pensare, riflettere su se stessi e sul mondo che li circonda; e per quella forse ancor più stretta cerchia di persone che, al contempo, è disposta a lasciarsi andare con il cuore in mano e la mente aperta a quell’inebriante, poetica, fluente cascata di immagini tipicamente malickiana che sembra essere l’esplicita traduzione iconografica dei suggestivi monologhi interiori di cui i film del regista da sempre si sono nutriti (in particolare da La sottile linea rossa in poi, ma non solo).
Articolo pubblicato su cinemartmagazine
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