The Turn of the Screw di Benjamin Britten (dir. Jakub Hrůša). All things strange and bold

Creato il 21 giugno 2013 da Spaceoddity
I piccoli Miles e Flora abitano a Bly con una governante, la vecchia Mrs Grose, lontano dalla city affollata e libertina. La loro vita è monotona e scandita dal ritmo del silenzio. A un certo punto, però, uno zio, il loro unico parente, manda loro un'istitutrice, che si prenda cura della loro educazione. Alla giovane e inesperta protagonista viene derogato ogni compito gestionale, la donna non potrà mai far conto sul suo datore di lavoro. Ma la tranquilla dimora di provincia è abitata da antichi spettri - Peter Quint e Miss Jessel - e la vita non è quale appare.
Dei racconti di fantasmi di Henry James, Virginia Woolf una volta ha detto che non farebbero paura a nessuno, ma non conosceva me: perché Il giro di vite (1898) mi incute un timor panico, una sensazione di malessere quasi fisico. Nella scelta tra le ghost stories di un autore a lui molto vicino, Benjamin Britten (1913-1976) non avrebbe potuto centrare meglio la tappa del suo percorso sull'innocenza umana. The Turn of the Screw (1954) è, di fatto, un momento di svolta nella produzione del compositore inglese: ultima vera e propria chamber opera, è però l'acme di una ricerca timbrica che poi si manifesterà vincente nella drammaturgia delle successive parables laiche e profane e in quell'incantato arazzo sonoro chiamato A Midsummer Night's Dream. Nel 1971, un Britten ormai anziano tornerà ancora a James con una television opera, Owen Wingrave, ma per allora la sua poetica avrà toccato altri lidi.

L'invenzione teatrale del libretto dell'immancabile Myfanwy Piper è tutto sommato semplice: un prologo (tenore) introduce alla situazione, ma - a differenza di quel che accade con la splendida The Rape of Lucretia - lascia il pubblico solo nel valutare lo sviluppo degli eventi. Non c'è, ne Il giro di vite, nessun sostegno morale: lo spettatore, come l'istitutrice anonima, è solo di fronte ai fatti che lo tormentano. Vero è che emergono con chiarezza indicazioni sul bene e sul male, ma non hanno il peso del chiacchiericcio sordo e sostanzialmente realistico del Peter Grimes: nel Turn of the Screw il bene e il male non sono tali per principio, sono invece realtà intradiegetica, sono bontà e cattiveria, ed è proprio questa rete relazionale a rendere la maglia della trama così viscosa, asfissiante. La stessa musica, in sostanza un tema con variazioni, ogni variazione una scena, contribuisce a inchiodare la vicenda a un rincorrersi di fatti e di suoni, a richiami sotterranei, sulfurei.
Diciamolo: The Turn of the Screw non è un'opera facile per le suggestioni che intercetta. Eppure, questo titolo di Benjamin Britten - che vanta le incisioni storiche del suo compositore per la Decca e quella superba di Davis per la Philips - ha sempre attratto direttori giovani e ambiziosi (si pensi alla teatralissima resa in cd di un allora ancora poco noto Antonio Pappano). L'acquirente cauto che voglia operare un acquisto in dvd non deve dunque preoccuparsi: il dvd fraMusica dello spettacolo registrato a Glyndebourne e diretto da Jakub Hrůša è davvero un capolavoro, senz'altro la produzione migliore di quest'opera che io abbia mai visto. Il direttore ceco (classe 1981) sfodera una sontuosa padronanza della musica che io fatico a riconoscere in altri suoi colleghi. Sul piano dinamico e timbrico, questo Turn riesce sempre a sorprendere e, grazie all'ausilio degli interpreti, anche a sottolineare suoni che non mi sembrava di aver mai sentito.
In tutti predomina una certa sostenutezza e un carattere inconsueto (si pensi soprattutto all'inedita Mrs Grose di Susan Bickley). Ma è l'affiatamento musicale a farla da padrone: l'istitutrice di Miah Persson è una cantante di lusso, ma capace di non sovrapporsi agli altri, mantiene il tono discreto del suo personaggio; il Peter Quint (e, prima, anche prologo) di Toby Spence riesce a imporsi con i suoi satanici melismi e la sua voce autenticamente britteniana, facendomi perfino dimenticare il mio amato Robert Tear; infine, la Miss Jessel di Giselle Allen esprime la sua spettrale sofferenza pur senza far ricorso a ridicoli maquillage: il suo è un dolore reale, intensissimo, altro rispetto a quello del suo antico complice e amante. Miss Jessel è la voce del male così come precipita sulle persone e le devasta: è uno dei personaggi più importanti e drammatici di Britten, erede suo malgrado di Lucretia.
Un discorso a parte va fatto ancora per i due ragazzini. Se la Flora di Joanna Songi è pulita, disinvolta, di una naturalezza da fuoriclasse, il Miles di Thomas Parfitt è a dir poco conturbante: cantante bravissimo, è sulla scena che il giovanissimo interprete sfoggia la sua sovrana qualità artistica. Il ragazzo trafigge con i suoi sguardi e incarna quest'essere pervaso dal male, compresso attorno a un nucleo ineffabile di buio. Thomas Parfitt, peraltro, è anche la faccia simbolo di una regia - quella di Jonathan Kent (con le riprese di video di François Roussillion) - che forse pensa più al cinema, ma riesce senz'altro a produrre uno spettacolo teatrale sensato e coerente. Senza compromettersi con mobilia d'accatto, questa messa in scena sfrutta in modo efficace sfondi tenui e smaltati, pochi elementi simbolici e una combinazione snella e proteiforme del décor. Il risultato è quello di uno sfondo - la villa isolata di Bly - che non ha l'aspetto polveroso e dismesso che ci si aspetta in una ghost story, ma neanche l'astrattezza generica e decontestualizzata di una rivista di arredamento.
Prevale, infatti, come nella musica di Benjamin Britten diretto da Jakub Hrůša, un'immagine di pulizia e di pienezza, in una sintesi che rende quest'edizione di Glyndebourne - con interpreti finora a me del tutto ignoti - una delle più belle e dense tra quelle che abbia ascoltato.

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