di Alessandro Tinti
Allo sfruttamento intensivo dello shale gas analisti e politici americani hanno accostato a colpo sicuro il termine “rivoluzione”. Gli incrementi produttivi innescati dall’estrazione di gas da argille e scisti bituminosi sono predicati quali il vettore che nel prossimo futuro ripoterà gli Stati Uniti alla posizione di preminenza occupata agli inizi del Novecento, ossia a quella di prima potenza energetica. Per un gigante economico che a lungo è stato centro di gravità delle transazioni di energia e che ha improntato la vocazione internazionale al dogma della liberalizzazione delle linee di approvvigionamento, le implicazioni geostrategiche di quest’annunciato cambio di paradigma del mercato energetico sono certamente imponenti. Tuttavia, una serie di questioni sottaciute dalle proiezioni sulla curva di produzione impone una lettura prudente della condizione d’indipendenza energetica eventualmente perseguibile dagli Stati Uniti – tanto sul piano della diversificazione globale dei siti estrattivi, quanto su quello dei costi non manifesti.
La crescente rilevanza degli idrocarburi non convenzionali nel mix energetico statunitense è stata sollecitata dai recenti sviluppi delle tecnologie estrattive; precisamente, la frantumazione idraulica e la trivellazione orizzontale hanno rapidamente creato un nuovo orizzonte di opportunità, consentendo l’utilizzo di vasti bacini altrimenti non commercializzabili in termini di redditività. Dal 2000 a oggi lo shale gas è passato dal 2% al 40% del gas complessivamente estratto, guidando aumenti costanti del livello di produzione che nel 2010 hanno permesso di sopravanzare la concorrenza russa. Secondo le proiezioni dell’Energy Information Administration (EIA) gli Stati Uniti diventeranno esportatori netti di gas naturale prima del 2020 ed esportatori di 5.8 trilioni di piedi cubi (Tcf) nel 2040, quando il gas non convenzionale peserà per metà dell’intera quota prodotta; si ipotizza, inoltre, che entro il 2035 il gas avrà soppiantato il carbone quale risorsa principale per la generazione di elettricità [1]. Secondo i dati forniti dall’EIA gli Stati Uniti potranno contare su un serbatoio di riserve sufficienti a sostenere almeno 90 anni di produzione. Emblematiche di questo cambiamento di prospettiva sono le numerose richieste [2] sottoposte al vaglio del Department of Energy per la conversione dei rigassificatori, costruiti per la ricezione di gas naturale liquefatto (LNG nell’acronimo inglese) e largamente inutilizzati, in impianti di liquefazione, al fine di sostenere le (eventuali) esportazioni verso i mercati asiatici, sudamericani ed europei.
La maggiore disponibilità di gas comporta ricadute importanti sull’economia interna: tra le più significative, il rilancio dei consumi provocato dalla riduzione della spesa familiare per il riscaldamento, il sostegno dell’occupazione nell’industria estrattiva, l’incentivo ad investimenti nel settore manifatturiero in ragione dei prezzi declinanti degli input energetici [3]. La rivoluzione americana non è tuttavia ancorata unicamente all’accresciuta abbondanza di gas naturale e al conseguente ampliamento degli utilizzi finali. Gli avanzamenti tecnologici hanno parallelamente incoraggiato lo sfruttamento del “tight oil”, ossia di petrolio anch’esso intrappolato in rocce impermeabili, la cui immissione sul mercato ha ribaltato un andamento negativo di lungo periodo nella produzione di greggio. Dopo il punto di minimo toccato nel 2008, la quantità di petrolio prodotta è cresciuta regolarmente, raggiungendo nell’agosto 2014 una media di 8.6 milioni di barili giornalieri (bbl/d) – un livello che l’industria petrolifera statunitense aveva da ultimo toccato nel luglio 1986 [4]. Nel 2013 gli Stati Uniti hanno registrato un incremento annuale di 1.1 bbl/d, un aumento assoluto non corrisposto da alcun competitore e che non ha precedenti negli annali della superpotenza [5]. I modelli EIA prevedono una produzione di 9.6 bbl/d nel 2019, con un differenziale positivo di 3.1 bbl/d rispetto al 2012, e prorogano al 2040 la contrazione inevitabile dello stock di greggio [6]. In altre parole, ciò significherebbe tornare alla capacità estrattiva degli anni Settanta, contendendo il primato dell’Arabia Saudita – con quest’ultimo che potrebbe essere già intaccato entro la fine dell’anno.
Benché occorra tenere concettualmente distinti i livelli di produzione dalla disponibilità di riserve, i dati attuali e le proiezioni correlate non solo accertano un rafforzamento degli Stati Uniti in una delle componenti costitutive della potenza nazionale, ma sembrano prefigurare un mutamento dei rapporti di forza globali. Il dibattito interno è concorde nel ritenere che i fattori scatenanti lo “shale boom” (la proprietà privata dei giacimenti, lo studio avanzato della geologia del Paese, un mercato dei servizi competitivo, un quadro legislativo accomodante, la presenza d’infrastrutture preesistenti e di adeguate conoscenze tecniche) potranno essere difficilmente replicati dai principali antagonisti di Washington, spesso frenati (è il caso cinese) da burocrazie elefantiache e verticistiche [7]. In questo senso una maggiore capacità produttiva tenderebbe ad una maggiore flessibilità strategica, allentando i pesanti vincoli contratti nei teatri mediorientali a tutela prioritaria della stabilità dei pozzi del Golfo Persico.
Le attese americane sembrano però peccare di eccessivo ottimismo poiché la guerra di cifre lanciata dai media d’oltreoceano lascia trasparire più di qualche incertezza sulla lettura dei prossimi equilibri energetici. In primo luogo, gli Stati Uniti consumano più idrocarburi di quanto siano in grado di produrne. Pertanto, l’ingente domanda interna deve essere continuativamente soddisfatta dalle importazioni. Guardando al gas naturale, nel 2013 ad una produzione di 687.6 bilioni di metri cubi (bcm) è corrisposto un consumo di 703.2 bcm, secondo tassi di incremento annuale rispettivamente dell’1.3% e del 2.0% [8]. La differenza è stata colmata dai gasdotti canadesi che hanno irrorato l’economia statunitense di 78.9 bcm [9] – a copertura anche delle quantità di gas pari a 44.5 bcm esportate dagli Stati Uniti in direzione dei partner NAFTA. Deve essere inoltre annotato che nel medesimo anno di riferimento sia Federazione Russa che Cina hanno seguito un passo più spedito, realizzando aumenti del 2.4% e del 9.5%.
La forbice import/export è ben più ampia in riferimento al petrolio, laddove nel 2012 la domanda di greggio è stata sostenuta per il 42% da fonti estere. Rovesciando i termini dell’equazione, gli Stati Uniti possono provvedere autonomamente a poco più di un terzo del proprio fabbisogno. Sebbene l’introduzione di misure di efficienza energetica abbia ridotto il consumo pro-capite, l’apparato industriale americano drena quasi 18 bbl/d, che riflettono il 19.9% dell’intera domanda mondiale. Se nel caso del gas naturale il bacino nordamericano nel suo complesso protegge la posizione di Washington, per quanto concerne il petrolio gli Stati Uniti non sono dunque in grado di recedere da una condizione di dipendenza esterna. In questa prospettiva tra l’ascesa produttiva e la recente riduzione delle quote importate non esiste alcun nesso di causalità: se è pur vero che la domanda di greggio si è abbassata di circa il 10% rispetto al 2005, è piuttosto il crollo dell’attività economica generato dalla crisi finanziaria del 2006 ad aver asciugato la sete di petrolio, moderando i flussi in entrata.
Conseguentemente, la tesi dell’indipendenza energetica del polo americano pare a dir poco affrettata, oltre che avvallata da studi di fattibilità non ancora maturi. Lo shale gas è certamente destinato a rivestire un ruolo fondamentale nel sostentamento dell’economia statunitense, ma la conversione dei sistemi produttivi a tale fonte energetica rappresenta un traguardo ad oggi lontano, basti pensare che il settore dei trasporti è interamente monopolizzato dai derivati del petrolio [10]. Nel caso di riferimento fissato dall’EIA il tasso di crescita annuale nella produzione di gas naturale raddoppia quello del consumo (1.6% contro lo 0.8%), ma questa ipotesi non è confermata dai trend attuali, come evidenziato nel paragrafo precedente. La stessa agenzia governativa precisa che l’attendibilità dei prospetti è sensibilmente condizionata da incognite geologiche (l’effettiva entità delle formazioni bituminose), economiche (il livello dei prezzi) e tecnologiche (lo sviluppo delle tecniche di estrazione) [11]. A tal proposito il grafico sottostante mette in luce la variabilità di questa tipologia di proiezioni.
Diversamente da valutazioni di corto respiro che puntualizzano l’accrescimento delle riserve fruibili dall’industria statunitense [12], uno studio del Post Carbon Institute raccomanda di considerare il rendimento energetico netto della risorsa, ossia il differenziale tra l’energia richiesta per lo sfruttamento della risorsa e l’energia contenuta nel prodotto finale. Poiché il rendimento netto degli idrocarburi non convenzionali è minore rispetto a quello delle fonti fossili convenzionali, il discrimine circa l’efficienza del loro impiego è determinato dai costi complessivi (anche ambientali) del ciclo estrattivo, che in ultima istanza definiscono l’indice di approvvigionamento della risorsa [13]. Da questo punto di vista i pozzi di shale gas accusano un crollo di rendimento elevatissimo, mediamente oscillante tra il 79% ed il 95% dopo i primi 36 mesi di attività. Secondo i report pubblicati dall’EIA, il mantenimento di livelli di produzione in linea con le proiezioni costringe una continua immissione di capitali per l’apertura di nuovi siti di estrazione. Tale esborso finanziario è stimato dal Post Carbon Institute in 42 mld di dollari, da versare annualmente al fine di garantire la trivellazione di oltre 7mila nuovi pozzi – una spesa che eccede il valore commerciale del gas estratto (nel 2012 stimato in 32.5 mld) [14]. La legge dei rendimenti decrescenti è parimenti applicabile ai prodotti petroliferi. In tal senso, per ottenere nel 2040 un atteso aumento del 41% dell’intera produzione domestica di idrocarburi sarà necessario un incremento annuale del 77% nella perforazione di pozzi. Non è un caso che nel corso del 2012 l’industria del gas e del petrolio degli Stati Uniti abbia chiuso con un passivo di 60 mld, a fronte degli onerosi investimenti effettuati [15].
In definitiva, se si incrociano i dati sul rapido declino della produttività media dei giacimenti non convenzionali con quelli descrittivi del divario consumo-produzione, gli andamenti discussi in apertura all’articolo non sembrano sostenibili nel lungo periodo. Ad appesantire questo bilancio intervengono due aspetti che non saranno oggetto di specifico approfondimento in questa analisi: da un lato, la convenienza nell’impiego su larga scala del gas naturale nel tessuto industriale americano sarà primariamente determinata dalle oscillazioni dei prezzi, bassi dal 2008 ma storicamente volatili e condizionati tanto da fattori macroeconomici quanto dall’evoluzione del settore estrattivo; dall’altro, i danni ambientali procurati dalla frantumazione idraulica (dalla contaminazione delle falde acquifere alla distruzione degli ecosistemi locali [16]) potrebbe raccomandare l’introduzione di regolamentazioni restrittive, fissando dei limiti ai volumi prodotti ovvero imponendo sanzioni, che condizionerebbero l’esplorazione e lo sfruttamento dei bacini non convenzionali.
I dati riportati avvalorano la tesi per cui il gas naturale possa costituire una “risorsa ponte” per il sistema produttivo statunitense, in grado di aggiornare l’efficienza energetica degli utilizzi industriali e residenziali, di ridurre il livello di emissioni e soprattutto di allungare la coperta in vista di un inderogabile ripensamento delle fonti energetiche (si tenga presente che l’86% della domanda statunitense è colmata da fonti fossili). Tuttavia, non pare realistico ritenere che le vaste riserve di gas non convenzionale in dote agli Stati Uniti possano risultare decisive sullo scacchiere globale poiché la crescita più che proporzionale del consumo interno diminuisce la credibilità ed il peso strategico delle quote esportabili oltre oceano. Conviene ricordare in tal senso il caso indonesiano, laddove lo sviluppo economico stimolato dall’abbondanza di petrolio ha gradualmente sollevato la domanda interna, trasformando l’Indonesia da Paese esportatore a importatore. Gli analisti che enfatizzano le potenzialità del “secolo del gas” a direzione americana tendono inoltre a trascurare un aspetto non marginale, ossia i costi di trasmissione delle esportazioni di gas che la condizione di insularità accresce sensibilmente. È infatti il mercato internazionale e non la quantità di riserve nazionali a definire l’export sulla base del prezzo di vendita della materia prima: in questo frangente i maggiori costi risultanti dal necessario processo di liquefazione e dal trasporto di volumi modesti influiscono negativamente sull’appetibilità del gas statunitense. In altri termini, è altamente improbabile che Washington abbia la capacità produttiva e commerciale di egemonizzare i mercati europei (riducendo il potenziale di ricatto di Mosca) [17] ed asiatici – con una possibile eccezione rappresentata dal Giappone, primo importatore di LNG (119 bcm nel 2013) ma conteso dalla concorrenza australiana.
Pertanto, nell’agone della politica internazionale gli Stati Uniti avranno l’opportunità di spendere la moneta del gas sul terreno del prestigio nazionale e delle percezioni altrui, piuttosto che sfruttarne i dividendi per alterare a proprio favore la bilancia dell’energia mondiale ovvero agitare una ancor meno probabile fuga isolazionista nell’emisfero occidentale. Da questo punto di vista il monumentale accordo per la fornitura (trentennale) di gas sottoscritto da Federazione Russa e Cina irradia un impatto strategico incomparabile con le deboli declamazioni di una prossima autosufficienza energetica della potenza statunitense, il cui baricentro politico-economico si rivela progressivamente eccentrico rispetto all’evoluzione dei contesti regionali. Secondo questa lettura, gli statisti americani (e con loro le cancellerie europee) dovranno guardare con crescente preoccupazione agli effetti conflittuali determinati dalla corsa globale al consumo di energia e dalla distribuzione iniqua del consumo. Come già riportato, gli Stati Uniti consumano mediamente un quinto del petrolio complessivamente immesso sul mercato, mentre il consumo mondiale di greggio è destinato a salire dagli attuali 90.5 bbl/d ai 117-121 bbl/d del 2040 – trainato quasi interamente dalle cd economie emergenti. È la crescita strutturale di quest’ultime a rendere ancor più complessa la partita energetica giocata dagli Stati Uniti.
* Alessandro Tinti è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Firenze)
[1] U.S. Energy Information Administration, Annual Energy Outlook 2014 With Projections to 2040, Department of Energy, Washington, aprile 2014.
[2] Su 31 richieste per l’autorizzazione ad esportare LNG inoltrate al dicastero competente, almeno 8 prevedono l’adattamento dei rigassificatori esistenti, con un costo stimato tra i 6 e i 10 mld di dollari per singolo stabilimento. Cfr. Michael Ratner, Paul W. Parfomak, Ian F. Fergusson, Linda Luther, U.S. Natural Gas Exports: New Opportunities, Uncertain Outcomes, Congressional Research Service, 17 settembre 2013, p. 11.
[3] Cfr. Robert A. Hefner, The United States of Gas, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 3, 2014.
[4] U.S. Energy Information Administration, Monthly Energy Review, Department of Energy, Washington, settembre 2014, p. 37.
[5] BP, Statistical Review of World Energy, giugno 2014.
[6] U.S. Energy Information Administration, Short-Term Energy Outlook, Department of Energy, Washington, settembre 2014.
[7] Cfr. Lynann Butkiewicz, North America’s Natural Gas Boom Comes to the Asia-Pacific, in “The Diplomat”, 27 settembre 2012; Robert A. Hefner, op. cit.; Edward L. Morse, Welcome to the Revolution, in “Foreign Affairs”, vol. 93, n. 3, 2014.
[8] BP, Statistical Review of World Energy, giugno 2014.
[9] A questi si aggiungano 2.7 bcm di LNG.
[10] Cfr. Michael Ratner, Carol Glover, U.S. Energy: Overview and Key Statistics, Congressional Research Service, giugno 2014.
[11] U.S. Energy Information Administration, Annual Energy Outlook 2014 With Projections to 2040, Department of Energy, Washington, aprile 2014.
[12] Henry D. Jacoby, Francis M. O’Sullivan, Sergey Paltseva, The Influence of Shale Gas on U.S. Energy and Environmental Policy, in “Economics of Energy & Environmental Policy”, vol. 1, n. 1, 2012.
[13] J. David Hughes, Drill, Baby, Drill: Can Unconventional Fuels Usher in a New Era of Energy Abundance?, Post Carbon Institute, 2013, pp. i-ii.
[14] Ibidem, p. 50.
[15] Edward L. Morse, op. cit.
[16] Cfr. Bipartisan Policy Center, Shale Gas: New Opportunities, New Challenges, gennaio 2012; Michael Ratner, Mary Tiemann, An Overview of Unconventional Oil and Natural Gas: Resources and Federal Actions, Congressional Research Service, gennaio 2014;
[17] Cfr. Matteo Villa, Sicurezza energetica: Obama (non) ci salverà, ISPI, 24 luglio 2014.
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