In tale contesto “The Walk” si inserisce come meglio non si potrebbe perché, al di là della discontinuità drammaturgia con il precedente lungometraggio interpretato da Denzel Washington, che in questo caso viene assicurata dal temperamento rilassato e sognante del suo timbro narrativo, la storia del funambolo francese Philippe Petit, che nell’agosto del 1975 fu capace di coprire la distanza che separava le due torri gemelle camminando su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto della città newyorkese, ripropone alcuni dei punti fermi della filmografia del regista primo tra i quali la scelta di raccontare un percorso umano apparentemente impossibile che si realizza grazie a una fiducia talmente grande da rasentare la follia. A cui si aggiunge, in ordine d’importanza, un senso dello spettacolo che utilizza gli effetti speciali – ampiamente sfruttati quando si tratta di entrare nel dettaglio dell’impresa di Petit – senza uscirne disumanizzato ma anzi rilanciandone le possibilità espressive nell’equilibrio tra la necessità di rendere al meglio l’eccezionalità del progetto da realizzarsi (non solo della passeggiata sul filo ma anche dei suoi preparativi, altrettanto rischioso per le violazioni alla legge commesse da Petit e la sua squadra per accedere all’interno delle Torri) e la volontà di non perdere di vista l’estemporaneità del fattore umano rappresentata dall’indiavolata voglia di fare di Petit e dagli inconvenienti minuti che essa comporta (valgano per tutti quelli illustrati nei siparietti che ci mostrano l’apprendistato del maldestro protagonista).
The Walk
di Robert Zemekis
con Joseph Gordon Lewitt,
Usa, 2015
genere, biografico, avventura
durata, 123'
Diventato
adulto, il cinema di Robert Zemeckis non ha rinunciato alla propria
voglia di stupire continuando a lavorare sull’immaginario
cinematografico attraverso un’alternanza di generi e formati che
nell’ultimo scorcio di carriera ha visto fiorire uno dietro l’altro
giocattoli iper tecnologici del calibro di “Polar Express” e “Christmas
Carol”, realizzati mediante l’utilizzo della cosiddetta Performance Capture,
e avventure esistenziali al limite dell’umano che hanno messo a dura
prova l’innato ottimismo dell’autore americano; pensiamo a “The
Cast Away” e soprattutto al drammatico “The Flight” che specialmente dal
punto di vista visivo – e qui pensiamo al realismo della sequenza
iniziale con il nudo di donna inserito in un’equivocabile contesto –
segna uno spartiacque con ciò che è venuto prima.
In tale contesto “The Walk” si inserisce come meglio non si potrebbe perché, al di là della discontinuità drammaturgia con il precedente lungometraggio interpretato da Denzel Washington, che in questo caso viene assicurata dal temperamento rilassato e sognante del suo timbro narrativo, la storia del funambolo francese Philippe Petit, che nell’agosto del 1975 fu capace di coprire la distanza che separava le due torri gemelle camminando su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto della città newyorkese, ripropone alcuni dei punti fermi della filmografia del regista primo tra i quali la scelta di raccontare un percorso umano apparentemente impossibile che si realizza grazie a una fiducia talmente grande da rasentare la follia. A cui si aggiunge, in ordine d’importanza, un senso dello spettacolo che utilizza gli effetti speciali – ampiamente sfruttati quando si tratta di entrare nel dettaglio dell’impresa di Petit – senza uscirne disumanizzato ma anzi rilanciandone le possibilità espressive nell’equilibrio tra la necessità di rendere al meglio l’eccezionalità del progetto da realizzarsi (non solo della passeggiata sul filo ma anche dei suoi preparativi, altrettanto rischioso per le violazioni alla legge commesse da Petit e la sua squadra per accedere all’interno delle Torri) e la volontà di non perdere di vista l’estemporaneità del fattore umano rappresentata dall’indiavolata voglia di fare di Petit e dagli inconvenienti minuti che essa comporta (valgano per tutti quelli illustrati nei siparietti che ci mostrano l’apprendistato del maldestro protagonista).
Così
facendo, nella sua acclamata perfezione “The Walk” trattiene al suo
interno quella visione ideale e un po’ utopica del mondo che lo collega
al mentore Steven Spielberg e che oggi gli permette di cimentarsi in una
delle più belle dichiarazioni d’amore che siano state fatte alla città
di New York, celebrata attraverso il ricordo delle Torri gemelle che
Zemeckis fa riemergere come arabe fenicie dalle ceneri a cui le avevano
ridotte la tragedia del recente passato. Ed è proprio nella capacità di
curare le ferite e di restituire le mancanze che esse comportano (la
figura paterna sostituita da papà Rudy, come l’immagine delle due torri a
cancellare il vuoto lasciato nel World Trade Center) a fare di “The
Walk” un film che assomiglia a una poesia.
In tale contesto “The Walk” si inserisce come meglio non si potrebbe perché, al di là della discontinuità drammaturgia con il precedente lungometraggio interpretato da Denzel Washington, che in questo caso viene assicurata dal temperamento rilassato e sognante del suo timbro narrativo, la storia del funambolo francese Philippe Petit, che nell’agosto del 1975 fu capace di coprire la distanza che separava le due torri gemelle camminando su un filo d’acciaio sospeso nel vuoto della città newyorkese, ripropone alcuni dei punti fermi della filmografia del regista primo tra i quali la scelta di raccontare un percorso umano apparentemente impossibile che si realizza grazie a una fiducia talmente grande da rasentare la follia. A cui si aggiunge, in ordine d’importanza, un senso dello spettacolo che utilizza gli effetti speciali – ampiamente sfruttati quando si tratta di entrare nel dettaglio dell’impresa di Petit – senza uscirne disumanizzato ma anzi rilanciandone le possibilità espressive nell’equilibrio tra la necessità di rendere al meglio l’eccezionalità del progetto da realizzarsi (non solo della passeggiata sul filo ma anche dei suoi preparativi, altrettanto rischioso per le violazioni alla legge commesse da Petit e la sua squadra per accedere all’interno delle Torri) e la volontà di non perdere di vista l’estemporaneità del fattore umano rappresentata dall’indiavolata voglia di fare di Petit e dagli inconvenienti minuti che essa comporta (valgano per tutti quelli illustrati nei siparietti che ci mostrano l’apprendistato del maldestro protagonista).
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