6 agosto 1974.
New York si ferma.
New York resta con il fiato sospeso e il naso all'insù.
Fra quelle due torri gemelle che stanno ridisegnando lo skyline della città, tra quelle torri che i newyorchesi non amano particolarmente e che stanno per essere completate, cammina un uomo, vestito di nero, sospeso su un filo.
Quell’uomo, un pazzo, un’artista, un genio, sopra quel filo, a 400 metri da terra, a 110 piani d’altezza, ci resta per 45 minuti, cammina, si siede, si stende: cambia il mondo.
Quell’uomo è Philippe Petit, un funambolo francese, che ha visto fra quelle torri un bel posto dove stendere il suo filo.
A raccontarci la sua storia è Robert Zemeckis, uno che tra Ritorno al Futuro e Forrest Gump di epopee e leggende se ne intende, e qui, attraverso quella di un’artista di strada che ha un sogno da realizzare, ci parla di malinconia, di un qualcosa che non c’è più.
Petit è infatti solo in parte il protagonista di questa storia, della sua storia, a dividere con lui la scena sono due torri in fase di costruzione, studiate, analizzate, scandagliate assieme alla sua banda di complici, che prendono vita, acquisiscono un’anima, proprio grazie alla sua impresa.
Lui, ne era semplicemente rimasto folgorato da una foto su una rivista, e ne aveva fatto il suo sogno a cui dedicarsi con ore di allenamento, con spettacoli per racimolare denaro, denaro per comprare i segreti di un funambolo esperto e sapiente.
Rimarrà la sua impresa storica più famosa, la più impressionante, che lo consegna alla storia, e che qui ci lascia ancora una volta senza fiato.
Ma prima di questa esperienza, prima di poter solo lontanamente capire cosa Petit in equilibrio su quel filo, in quei 45 minuti infiniti, potesse sentire e pensare, c’è altro da raccontare: la sua vita.
Ed è lui stesso a raccontarcela, con un Joseph Gordon-Levitt ammiccante e gigioneggiante, che con la sua voce ci guida, giocosamente, in un passato dove la famiglia non lo sostiene, dove Parigi lo accoglie per le sue strade, dove trova l’amore e la dedizione per il funambolismo all’interno di un circo.
È una girandola inarrestabile, un fiume che scorre che noi seguiamo appassionatamente, guidati da un ritmo esaltante, da una sceneggiatura serrata.
Poi, una volta arrivati a New York, ci si ferma, il colpo è da preparare nei minimi dettagli, la frenesia lascia il posto alla paranoia, a una paura che si insinua dentro.
Tutto quello che poteva andare storto, in quella notte d'agosto, va storto, ma Petit è lì, pronto a compiere quel passo, pronto a destabilizzare il suo equilibrio, a essere un funambolo.
Non ci sono troppi dubbi nel dire che The Walk è un film che ha tanto cuore, che mette in risalto da una parte la passione di Petit per il sogno, per vederlo realizzare, dall’altra l’amore e la nostalgia che quelle due torri rappresentano.
Si potrebbe quindi pensare a un film buonista, a un film americanata, ma invece no, perché tutta questa operazione fa trasparire una genuinità palpabile.
La si sente, correndo tra le strade di Parigi, percorrendo in lungo e in largo e in altezza quelle torri per poter memorizzare tutto, la si sente in un cast affiatato in cui spicca un saggio Ben Kingsley, la si vede negli occhi di Joseph Gordon-Levitt che sorridono sinceri, nella sua voce (oh, quando parla in francese…) che ci accompagna.
Ma la si sente soprattutto lassù, sospesi con lui a 400 metri d’altezza, in cui Zemeckis tra effetti speciali e ricostruzioni (non sempre riuscite) riesce a trasmetterci tutte le sue sensazioni: paura, ansia, ma anche una pace e una sicurezza impensabili.
Si resta letteralmente con il fiato sospeso, a far sudare le mani, a tenersi quello stomaco gravato dal peso delle vertigini, e si resta incantati, di fronte a un’impresa tanto folle quanto bella.
Sì, bella.
Tutto questo rivive in un film che lascia sognanti, lascia esaltati, ma sotto sotto, dietro a quella frenesia, dietro alla gioia e al successo di quell’impresa, c’è un filo di malinconia, legato al passato, legato a un sogno ora realizzato, ora concluso, che si tende davanti a noi.
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