The Wolf of Wall Street, USA, 2013, Regia di Martin Scorsese
Recensione di Alberto Bordin
Potrebbe essere lecito ritenere che ogni film meriti una recensione di adeguata qualità, per cui quella cromia che traspariva attraverso le immagini in sala, la si possa respirare anche leggendo quelle poche righe atte a presentarlo; secondo tale prospettiva – per esempio – sarebbe difficile che una recensione di Braveheart risulti efficace esponendo i propri punti in tono piano e sommesso: avrebbe bisogno di vibrare anch’essa di quell’impeto eroico e bellico che colorano le due ore e mezza del film di Gibson. Ebbene, scrivere una recensione del genere de Il Lupo di Wall Street, l’ultima pellicola firmata Martin Scorsese, sarebbe impossibile senza infrangere le norme della decenza e del decoro che un testo pubblico deve tenere. Si invitano quindi i lettori a fare un piccolo sforzo di fantasia per aiutare chi scrive, e leggere quanto segue con quella malizia che è tipica di un guardone che scruta una foto censurata, al fine di cogliere, dietro parole (che si spera siano) ben poste e altolocate, contenuti di natura assai più triviale e perversa.
Perché sono proprio l’indecenza e la perversione i temi chiave di questo film. Immaginate un film atto a inneggiare l’eros: tre ore di film scritte, girate, montate col solo scopo di convincervi che tutto gira intorno al sesso, che l’uomo vive per farlo, che è compiuto solo nell’atto erotico, anzi, che il compimento di senso di ogni cosa, il vitalizzarsi e il risolversi di ogni quesito e dramma della vostra vita, si attua quand’anche l’amplesso è finalmente compiuto. Due secondi per rifletterci. Bene: adesso fatelo diventare un film sui soldi.
Ed è quella follia che infervora gli animi e acceca la ragione, che nessuno sa davvero come frenare se non armandosi del disgusto, se non alienandolo, rimanendovi estraneo, guardandolo fuori e mirandone ammutoliti la follia; ed è ovvio che per voi è folle – dice Jordan –, perché non ne fate parte, ma per noi che lo viviamo invece, in che altro modo potremmo vivere? È un potere che si loda da solo, si esalta da solo, si afferma nella sua onnipotenza, in un linguaggio osceno che se ne frega della riprova sociale, in un atteggiamento osceno che se ne sbatte della riprova sociale, in un’interrelazione sociale che non sa nemmeno cosa voglia dire “riprovarsi”: si dice? boh? è una parola? mah, chi se ne frega.
Ma non è con questi occhi di estranei che guardiamo il film, perché non è un film raccontato da un estraneo, ma da uno che ci è dentro fino al collo, uno che quel mondo lo vive, meglio, l’ha creato, perché lui è quel mondo e quella vita. Non è mai stato tanto piacevole farsi raccontare un film, Jordan Berfort non sta zitto un solo istante, e guai lo facesse, ne perderemmo tutti del nostro intrattenimento. Ne siamo ammaliati, vinti, attratti, con-vinti a tal punto che nemmeno noi percepiamo più a pieno l’assurdità di quel mondo, anche noi drogati, eccitati, perversi e divertiti, deviati nel deviato mondo di Berfort. Non vuole essere una ricetta, ma provate a lasciare a casa mamma e papà, non portate con voi i vostri figli (per l’amor del cielo: non fatelo, no!) e sedetevi in sala e guardate il film, e per la durata di 180 minuti, attraverso circa due dozzine di scene di sesso e addirittura due orge, e la bellezza di 522 (o 506, i media danno numeri incerti) varianti della stessa imprecazione a quattro lettere – chi ha mai detto che la scurrilità uccide la ricchezza comunicativa è stato clamorosamente smentito –, contemplando tutto questo scempio, fermatevi e osservatevi, e vedrete se forse, per la prima volta nella vostra vita, il moralismo non vi avrà tappato le orecchie, la vergogna non vi avrà fatto distogliere gli occhi e il pudore non vi avrà tolto il sorriso dalla faccia. Questa volta non avete letto l’avventura di Alice, ma avete seguito la bimba giù per la tana, curiosi e compiaciuti, e sotto quelle treccine bionde si nasconde un lupo vizioso e con ancora tanto pelo, che ulula soddisfatto della propria grottesca voracità. È la lode al vizio per il vizio.
Ma si tratta di un vizio antico, diverso da quello moderno. Il vizio dei moderni è il cinismo, è il vizio per negazione: è solo eros perché non c’è amore, è solo dollaro perché non c’è valore, è solo menzogna perché non c’è verità. Oggigiorno la perversione è proprio un cambio di rotta, è il per-vertere che intende lo stravolgere, che implica viaggiare nel senso opposto. Ma la perversione di Jordan è di tutt’altro tipo. È quella perversione che non cambia traiettoria, ma la percorre in modo smodato. È una strada sterrata e quieta di campagna, investita da una Ferrari cromata in corsa alla velocità di 350 km/h. Jordan Belfort è la voracità di chi vuole ogni cosa, in ogni momento, alla grande, alla follia, senza misura e senza impedimento. Non è la nube grigia della depressione umana, ma la balenante corsa di un fulmine. E al baleno segue la rovina.
Era un altro film di estrema bellezza e intelligenza a dire “se corri come un fulmine, ti schianti come un tuono”; e Jordan Belfort è l’eco di quello schianto. Le pagine autobiografiche da cui è stato tratto questo film, trasudano della nostalgia del potere e della profezia della rovina, come una bomba che non ha altro destino che esplodere. E la caduta è disastrosa, la perdita di ogni dignità, sia questa morale come fisica, la perdita di ogni bene, che fosse rubato o guadagnato, e la perdita di ogni affetto, quelli creduti e quelli provati. Si è detto che questo film non prenda posizioni e non dia una morale; “non prendere” e “non dare” non sono però sinonimi di “non avere”: c’è una posizione e c’è una morale, c’è quella contemplazione silenziosa di un pallone che si gonfia e poi scoppia, del razzo lanciato oltre l’atmosfera, e che poi precipita al suolo innescando l’esplosione.
E il fantasma di quell’ebbra follia si dilegua, lasciando solo il muto imbarazzo, come un ragazzino colto in flagrante dai genitori, davanti lo schermo del computer, la lozione in una mano e il fazzoletto nell’altra. Ma il fatto che oggi sia scomparso non significa che non fosse vero; la caduta non cancella la memoria della salita; e anche quando tornano la coscienza e l’assennatezza, rimane comunque impresso negli occhi il luccichio trasognato di quell’ebrezza. È il fascino di un mondo che non ha confini, per cui basta poco, basta solo che tu ne sia capace: “vendimi questa penna”.