“The Wolf of Wall Street” di Martin Scorsese: il Sogno Americano incarnato da un broker senza scrupoli

Creato il 06 settembre 2014 da Alessiamocci

The Wolf of Wall Street del regista Martin Scorsese: una carrellata di immagini eccessive per riassumere una vita all’insegna dell’eccesso.

Eccesso di cosa?

Soldi, ovviamente.

Leonardo di Caprio non delude: anche questa volta è capace di indossare i panni del personaggio senza farsene soffocare. Anzi, Jordan Belfort è fin troppo umano per essere quello che è: un agente di borsa che, passo dopo passo, riesce a costruirsi un impero dal nulla.

La realizzazione del vecchio ma mai appassito sogno americano? Assolutamente sì. Ma nella sua peggiore estremizzazione.

Jordan compare sulla scena come un giovane più o meno ingenuo che si fa, consenziente, fagocitare dalle dure leggi di Wall Street. L’aggressività, il cinismo, la volgarità dei brokers che gli fanno da mentori lo affascinano – come tutto ciò che è in qualche modo collegato al suo grande sogno.

Il suo grande sogno? Semplice: arricchirsi.

Ma Wall Street lo sbatte fuori il giorno stesso in cui lo ha accolto: è il Lunedì Nero del 1987. Dopo aver sfiorato l’empireo, Jordan sprofonda, ritrovandosi più povero di quanto fosse all’inizio. Non solo non ha un lavoro, ma – dopo il crollo della borsa – nessuno cerca brokers.

Ma il nostro (anti)eroe, irriducibile, riesce a trovare uno spiraglio e a questo si aggrappa: ricomincia da zero, lavorando in un minuscolo call center a cui, pochi giorni prima, avrebbe guardato con disprezzo e arroganza. Ma è il sogno americano, no? Jordan si rimbocca le maniche e dà il meglio di sé, e in breve riesce a fatturare settantaduemila dollari al mese.

Qual è il segreto del figliol prodigo del sogno americano? Jordan sa vendere. Jordan sa vendere perché sa creare bisogni.

E così, per mostrare ai suoi futuri collaboratori come si divenga venditori di successo, chiede a uno di loro:

«Vendimi questa penna.»

«Mi faresti un favore? Scrivi il tuo nome su quel tovagliolo.»

«Non ho una penna…»

«Eccola! Basta che domandi, no?» 

Mescolate questa capacità a una certa mancanza di scrupoli, a una creatività encomiabile e a una certa attitudine alla recitazione e avrete il broker perfetto: Jordan Belfort.

Eppure, questo personaggio amorale da ogni punto di vista (il film è anche una carrellata del suo abusare di sesso e stupefacenti per condurre una vita ben lontana da ogni pericolosa riflessione), rimane al contempo un perfetto esempio del figliol prodigo del sogno americano.

Jordan è un self-made man: non c’è trucco né inganno né scorciatoia nel suo divenire, da uomo qualunque, un broker schifosamente ricco. C’è illegalità, certo, ma non serve che a riconfermare il suo genio: Jordan ha dalla sua un’intelligenza capace di comprendere il sistema e fregarlo. Poco etico, forse?

Ma The Wolf of Wall Street complica il quadro, impedendoci di catalogare tutti i broker speculatori e dalla discutibile morale sotto l’etichetta “cattivi”.

Memorabile è la scena in cui una broker della Stratton Oakmont, società fondata da Jordan ed emblema del suo genio, racconta ai colleghi riuniti la sua storia. Madre single, con tre mensilità arretrate d’affitto da pagare, andò a chiedere lavoro a Jordan, chiedendogli anche un prestito di 5000 dollari per poter pagare gli studi della prole. Jordan, allora, le diede 25000 dollari. Perché? Perché credeva in lei.

C’è una grossa critica, qui, a una caratteristica strutturale degli Stati Uniti che procede parallelamente al sogno americano, ma con cui di rado viene rappresentata: il welfare state. Quello che, nel Paese del libero mercato per eccellenza, non solo finisce in secondo piano, ma viene anche visto come una minaccia alla società vigente.

La morale?

Difficile trovarne una a questo film che mette nel calderone decine di elementi contrastanti. Quel che The Wolf of Wall Street si “limita” a fare è mostrare una dinamica: si entra nel mercato della truffa finanziaria, come brokers o come papabili vittime dei brokers, nel momento in cui si vogliono soldi. Tanti o pochi che siano. I miliardi cui auspica Jordan, o le migliaia necessarie a una donna single per mandare i figli a scuola.

Cosa rende un individuo come Jordan un accumulatore compulsivo di denaro? Il sistema.

Quel sistema che fa sì che, anche nell’ipotesi in cui Jordan si dovesse trovare in prigione, non sarebbe un prigioniero uguale agli altri: i soldi hanno potere ovunque, più potere della legge, soprattutto nelle carceri.

Cosa rende una madre single desiderosa di diventare una broker senza scrupoli? Il sistema, quel sistema che la lascia sola con un figlio a carico per la cui educazione è necessario pagare.

La conclusione?

Non è vero che i soldi non hanno un valore reale: ne hanno eccome, nella misura in cui riescono a garantire o non garantire benessere al singolo individuo. E nelle società capitaliste, ovviamente, è più probabile che i soldi abbiano questa magica proprietà.

E così, in quest’epoca post crisi finanziaria del 2007, The Wolf of Wall Street sembra dare un’unica, frustrante, risposta alla domanda:

Cosa ha affossato il sistema?

Il sistema.

E il sistema, fortunatamente o sfortunatamente, è fatto di esseri umani.

Come suggerito nel finale, sta a tutti – a ognuno – decidere se cadere nella grande tentazione offerta da Jordan:

Vendimi questa penna.

Written by Serena Bertogliatti


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