Strana scelta, quella operata da Starz, nel voler chiudere una serie veramente così nuova nel panorama televisivo dopo solo tre stagioni, più una mini a farne da prequel, la penna di DeKnight e il suo team di sceneggiatori aveva cartucce d’inchiostro a sufficienza per far sanguinare ancora copiosamente le vie di Roma per parecchio altro tempo – d’altronde, concentrandosi sui caratteri, viene miracolosamente fin troppo facile mettere un carisma contro un altro e farli scontrare di puntata in puntata con un bordello di tette e teste mozzate a fare da contorno –, tuttavia Spartacus si ferma alla terza tornata, e War of the Damned è sicuramente la stagione migliore, dieci episodi che raccolgono il meglio del meglio e lo frullano per una sinfonia tra il tragico e il solenne che, in più di un’occasione, diventa tipo la cosa più epica di ogni tempo, perché se i villain di turno sono sempre apparsi come figure tormentate, subdole, arriviste o talmente arroganti da non accorgersi della loro debolezza (Glabro, Solonio e ovviamente l’indimenticabile Batiato, forse il solo, vero protagonista della prima stagione e delle mini Gods of the Arena), per il gran finale il lavoro psicologico nella definizione di Crasso e Cesare è meticoloso, ne escono uomini di ferro, potentissimi, boriosi e sfrontati sia quando mossi dal senso dell’onore sia dalla più selvaggia giovinezza.
E con personaggi di questo calibro DeKnight non ha di certo paura nell’indugiare sui precisi dialoghi, già in passato lunghissimi e imponenti, ora pressappoco infiniti, che sempre, pur girando attorno a tematiche tipo honour and glory, fight for blood e rise the sword, rendono le discussioni, le diatribe, gli scontri verbali accesi e complessi, profondi e intriganti – al di là delle classiche, eroiche orazioni per incitare i rispettivi eserciti alla lotta, la stima reciproca provata tra Crasso e Spartaco raggiunge vette di notevole lirismo, così come l’amicizia/odio tra Spartaco e Crisso, o l’ipocrisia di Tiberio e il suo gioco sleale verso Cesare e il padre. E di fronte a tante attenzione dialogica non importano, davvero non importano le tante sbadataggini, i dettagli poco accorti, le imperfezioni sentimentali, le lacune geografiche e quant’altro (se nella seconda stagione Spartaco e compari scalavano il Vesuvio in venti minuti adesso costruiscono dal nulla e in zero secondi un’immensa arena, per non parlare della velocità con cui percorrono in lungo e in largo la penisola, a piedi e con chilometri di coda di schiavi liberati).
Il resto, be’, il resto è Spartacus, l’orgia gratuita, esagerata, spesso davvero sproporzionata di sesso e sangue fa parte dell’opera, e sarebbe ingiusto criticarne anche il più piccolo aspetto, ma se a livello di nudi maschili e femminili ci troviamo sicuramente a un gradino inferiore rispetto al passato, anche la violenza pare essere stata ridimensionata rispetto a certe vette allucinanti toccate nella stagione due (quelle dita che entrano nell’addome modello Ken il guerriero e torcono un pezzo d’intestino per torturare quel povero disgraziato mi perseguiteranno per sempre) per la creazione di un’atmosfera ancora più personale e disturbante – momenti straordinari come la battaglie a scorrimento orizzontale e soprattutto la devastante decimazione dei codardi romani lasciano estasiati e mortificati allo stesso tempo da un impatto visivo che raramente, prima d’ora, tanto in tv quanto al cinema, aveva giocato con tanta inventiva con violenza primigenia e geyser di sangue, atmosfere plumbee e ossa che fuoriescono spezzate, sempre mantenendo costante il tono aulico e solenne dell’opera.
L’esaltazione è strumento necessario per godersi appieno quella che in fondo è soltanto una tamarrata galattica, ma così densa di pathos, pur nella sua volgarità, da diventare tassello importante nell’evoluzione televisiva. Da rivedere, coi lacrimoni, i pugni alzati e gli occhi fuori dalle orbite, incitando Crisso e Gannico a gonfiare i pettorali e a dare mazzate viulentissime sulle crape romane.