Si fa presto a dire: Ricomincia. No, non c’è un cazzo da fare. Non si può sezionare la propria vita e poi rinchiudere ogni pezzetto in un diverso contenitore a tenuta stagna. Lavoro. Amore. Sesso. Amici. Egoismo. Robaccia. No, tutto si mescola e tutto è collegato. Lui è lì, dall’altra parte d’Europa, e presto i suoi occhi dorati guarderanno qualcun’altra, una donna che non sono io. Ma io non guardo nessuna come guardo te. Lo so, piccolino mio, lo so. Ma dovremo arrenderci, prima o poi. E intanto, le mie carte si mescolano. L’amore. Quella è una carta che ho smarrito. Ma il resto, il resto è tutto un confondersi e le priorità sono cambiate. E io prendo a inseguire una carriera di cui non mi è mai importato.
Questi corridoi candidi e scarni, fungono da anestetico. Le facce. Tutte queste facce di arrampicatori professionali. I sorrisi di circostanza. Gli occhi che fissano l’orologio nell’angolino dello schermo in basso a destra. Gli echi di voci che si inseguono nel corridoio. Dopo un po’, la luce smette di filtrare dalle finestre e il silenzio mi avvolge. Un signore sudamericano spazza svogliatamente il pavimento. Infine, va via anche lui.
Esco fuori per fare una pausa. Sento il bisogno dell’ennesimo vizio. Nel quartiere finanziario tutto tace, alle undici di sera. Solo un distributore automatico illumina la noia di una fila di edifici morti. Inserisco le monete in una fessura e poi prendo il pacchetto e lo stringo tra le mani. Ho sempre odiato fumare, per il sapore e per il filo di fumo che mi fa lacrimare impercettibilmente l’occhio sinistro. E perché non so tenere elegantemente la sigaretta tra le dita ma la stringo con goffagine tra i polpastrelli di pollice e indice. Ma fumare era la mia unica possibilità, stanotte. Al mio rientro nel palazzo, nel cortile, trovo la guardia giurata con la sigaretta tra le labbra, mi unisco a lui. Mi porge l’accendino. Che fine ha fatto quel tuo collega? E’ da un po’ che non lo vedo, indaga lui. E’ andato, rispondo evasiva. L’hanno cacciato sarebbe la risposta da un milione di euro. Ma non sono affari miei, né della guardia giurata. Fai davvero degli orari pesanti, non hai nessuno che t’aspetta a casa? Sorrido e cerco di mascherare il fastidio per il fumo che m’è andato prevedibilmente nell’occhio sinistro. No, non più. Getto il mozzicone in un posacenere a piantana. Torno dritta su al quarto piano. Butto il pacchetto nel cestino. Poi ci ripenso, lo recupero e lo infilo nel cassetto, tra le cialde del caffé e le ricevute dei taxi. Mi siedo. Osservo la schermata della mia posta personale per qualche minuto e no, non c’è nessuna nuova e-mail. Chissà cosa fa Gabriele a quest’ora. Mi rimetto a lavorare su un business plan, schiaccio un tasto e resto ad osservare le iterazioni che girano lentamente nell’angolo dello schermo in basso a sinistra. Su una casella di excel compare la scritta “OK”. Ok, un cazzo, dico a mezza voce. Mi alzo, prendo lo zaino ed esco. Fuori l’aria è più fresca di prima e nel parcheggio ci sono soltanto l’auto della vigilanza e la mia moto. Mi ritrovo a sfrecciare nella notte e a maledire il pavé che mi sta distruggendo le sospensioni. La mia unica ambizione è quella di arrivare a casa e crollare dal sonno, senza aver il tempo di pensare a ciò che non ho più.