Da una Croisette all'altra. E' così che Paolo Sorrentino passa per i Festival di Cannes proponendo, uno dopo l'altro, due film che danno al regista napoletano l'ufficiale conferma nel panorama cinematografico "mondiale". Nel 2008 fu la volta de Il Divo, la biografia drammatica resa memorabile dall'interpretazione di Toni Servillo, nei panni del senatore a vita, Giulio Andreotti. Numerosi i riconoscimenti sia in Italia che all'estero, Premio della giuria a Cannes, 7 David di Donatello e una nomination agli Oscar 2010 per il Miglior Trucco. Pensare che proprio lì, tra la Giuria di Cannes (2008) il destino volle mettere come Presidente lo stesso Sean Penn che nel 2011, diede il "benestare" al primo film "all'Estero" di Sorrentino.
This must be the place è il quinto lungometraggio del regista campano, un regista che ha già convinto pubblico e critica fin dai tempi del suo primo L'uomo in più (2001). C'è però qualcosa in questo "road-movie" un po' rock e un po' malinconico, che, per diversi motivi, non ha convinto in modo omogeneo. Cerchiamo di capire (perché?)
Cheyenne è una rock star lontana dai palchi e dalla chitarra da molti anni. E' sulla soglia dei '50 ed è alle prese con una crisi esistenziale non del tutto chiara. Forse è depressione, forse è solamente noia. Da Dublino, dove vive con la moglie Jane, Cheyenne si sposta per raggiungere New York. Qui, ad attenderlo, un padre morente che non vede da trent'anni e un terribile dolore "marchiato" a pelle, chiamato Olocausto. La morte di un padre/sconosciuto e un 'umiliazione ancora viva, nonostante la morte dell'uomo che l'ha subìta in passato, porteranno Cheyenne in viaggio per gli Stati Uniti, alla ricerca dell'ufficiale nazista colpevole di questa grande mortificazione.
"Veniamo a noi". E' vero. A un primo sguardo c'è sullo schermo un mezzo pagliaccio dark che se ne va in giro con un trolley e col "trucco e parrucco", tipici del disadattato perennemente in conflitto con una società che non sarà mai "pronta" ad accettarlo. (Il mio pensiero va, inevitabilmente, a Edward mani di forbice...) Ed è così, perché sappiamo che Sorrentino ha puntato molto su questo, e su quel che un grandissimo attore come Penn avrebbe potuto fare (e ha fatto). Ma attenzione a non cadere nella convinzione di quanti sostengono che, Penn/Cheyenne, altro non è, che una versione rocker del Mi chiamo Sam di Jessie Nelson. Non è accettabile e condivisibile come accostamento. L'uomo di Sorrentino è un personaggio dalle mille sfaccettature. Cheyenne è il disagio per un mondo che non comprende, è il rimpianto di un cinquantenne che troppo in fretta è passato dal "farò così" al "avrei potuto fare così, e non l'ho fatto". Cheyenne è la vendetta di un ebreo costretto a subire ignobili barbarie, è la perseveranza, è la distrazione dei giovani di oggi, gli stessi che si attaccano a un'idea e non la mollano più, seppur sbagliata.
C'è, nel susseguirsi di immagini a volte anche fin troppo strane e non collocate nella diegesi del film (mi viene in mente il bisonte o l'oca nella cucina della professoressa di storia), qualcosa che ritorna incredibilmente a capo, insieme all'uomo che arriva a "smascherarsi" sotto la finestra di una donna disperata "che aspetta". Il viaggio alla ricerca di sé stessi risulterebbe fin troppo banale se non "raccontato" in un certo modo. Tra movimenti di macchina ad immortalare gli sguardi e i passi di un uomo che si riavvicina a sé stesso. Superba la sequenza di David Byrne nei suoi stessi panni, complice la musica dei suoi Talking Heads, ma la scelta scenografica è stata altrettanto fantastica. I dialoghi quasi invitassero, "in ogni dove", al confronto e all'esternazione, cosa che oggi, soprattutto i giovani, hanno dimenticato. Non c'è solamente lo "strano" che somiglia al ritardato ben fatto dall'attorone di Hollywood, non è così. Se c'è qualcosa però, che ancora non comprendo, tra le scelte di Sorrentino, e forse l'unica, è il tema dell'Olocausto. Mi son chiesta subito se fosse davvero così necessario "servirsi" di un tema così forte e orribile (un tema che, diciamolo pure, "dove lo metti sta") per accompagnare sullo schermo la storia della rock star depressa in fuga da e verso sé stesso. (?)
Le storie e gli incontri che Cheyenne fa, non sono dei quadretti messi lì a casaccio, come molti sostengono. La ragazza triste, Mary ( Eve Hewson, la figlia di Bono) e il ragazzo timido che non sa come conquistarla, Desmond. Porteranno Cheyenne alla scoperta di una delle cose più belle della vita, "la riconoscenza". Fare qualcosa per gli altri, rende felici (e alla fine tutto il film giunge a conclusione proprio in questo senso, il "fare qualcosa per"...). Dopo aver visto This must be the place, penso al fatto che l'autore sia un giovane regista napoletano, così, tiro un sospiro di sollievo, e torno a credere che, per il cinema italiano, una speranza magari, ancora c'è. Il bambino con la paura dell'acqua, il tatuatore, il detective e il proprietario del pick up. Una piscina senz'acqua e una casa immensa per sole due persone...
"Home, is where I want to beBut I guess I'm already thereI come home, she lifted up her wingsI guess that this must be the place".
...dev'essere questo il posto.