Paolo Sorrentino è senza dubbio uno dei migliori registi italiani emersi nell’ultimo decennio e probabilmente quello con il timbro autoriale più personale e riconoscibile. Lo ha dimostrato sin dall’esordio ne L’uomo in più, passando per il capolavoro Le conseguenze dell’amore, L’amico di famiglia e ricevendo la consacrazione internazionale con Il Divo. Qui si confronta con il suo primo film in lingua inglese, potendo vantare per l’occasione un protagonista di sicuro richiamo, Sean Penn (si dice che sia stato proprio l’attore americano a proporre al regista di fare un film assieme).
Cheyenne (Penn) è un bambino nel corpo di un cinquantenne sfatto, a suo modo buffo e ingenuo, l’ombra della rock star che un tempo era, ora depresso e annoiato cronico. Look alla Robert Smith, andatura incerta e voce in falsetto, vive stancamente nella sua grande casa in Irlanda dove sembra che l’unica attività ad interessarlo sia giocare a pelota con la moglie (una brava Frances McDormand). Alla notizia della morte del padre, col quale non parlava da trent’anni, Cheyenne si reca al suo capezzale in America per poi mettersi alla ricerca dell’aguzzino nazista del genitore, recluso in un campo di concentramento durante la Seconda Guerra Mondiale. Un viaggio in bilico tra redenzione e vendetta, maturazione e smarrimento.
Ad onor del vero l’umorismo stralunato che contraddistingue tutta la pellicola va spesso a segno e si ride anche di gusto, così come i dialoghi – siano essi ironici o drammatici – sono incisivi; nonostante sia difficile prendere sul serio Cheyenne è innegabile infatti la disperazione e la tenerezza sprigionate in quella sorta di confessione-monologo che fa all’amico David Byrne, interprete di se stesso nel film quando canta la canzone che dà il titolo al film. Pregi che permettono di soprassedere alle lacune narrative sopra esposte in nome di una visione molto godibile che non viene appesantita neppure dal difficile tema dell’Olocausto. Questo viene infatti trattato con sobrietà e senza eccessi, anche se in realtà Sorrentino non ci si addentra mai veramente, come se avesse avuto paura di scottarsi con un tema più grande di lui, rinunciando così a farne il tema principale della pellicola che rimane, come d’altronde in ogni on the road che si rispetti, la crescita spirituale del protagonista. Nel suo pellegrinare per gli Stati Uniti però, Cheyenne non sembra assorbire nulla dai tanti personaggi che trova sulla percorso se non una volta arrivato all’incontro finale. Fino ad esso infatti questo sviluppo interiore non viene mai elaborato, preferendo privilegiare la sua interazione con la varia umanità che incontra, spingendo a volte su tasti a volte lirici a volte grotteschi, così che la svolta finale risulta sì poetica, ma anche affrettata e un pò pretestuosa.
Il grande salto del regista verso il mercato internazionale si può quindi dire solo parzialmente riuscito, ma fa piacere constatare come nonostante il target di riferimento sia cambiato, la sua cifra autoriale sia rimasta invariata. This Must be the Place si può quindi considerare come una pellicola di transizione e “adeguamento” in previsione di – speriamo - futuri capolavori.
EDA