Thomas Jay: storia di un libro e di un personaggio di Valentina Caffieri

Creato il 01 aprile 2012 da Viadellebelledonne

Thomas Jay: storia di un libro e di un personaggio ( Fazi, 2012)

L’autrice Alessandra Libutti ci racconta come è nato il progetto

Alcuni giorni fa è stata inviata a numerosi  blogger una notizia riguardante la pubblicazione in Italia, (a cura della casa editrice Fazi di Roma), di una serie di romanzi di un genio dimenticato, lo scrittore italo-americano Thomas Jay alias Stefano Lorenzini, nato ad Arezzo il 5 marzo 1957. Si parlava dello scrittore recluso in un carcere americano e condannato all’ergastolo. Il 5 marzo 2012  è apparso sul web un video con una serie di personaggi che descrivevano, anzi descrivono, la vita di Thomas Jay, la sua condanna all’ergastolo e un appello con tanto di sito web per firmare una petizione per la sua scarcerazione. Due blogger per primi,Giuseppe Guerrasio (http://www.thebrainmachine.org) e Miguel Martinez ( http://kelebeklerblog.com), incuriositi da questa notizia, che parlava anche di errori del sistema giudiziario americano, però non ci hanno visto chiaro ed hanno iniziato a fare ricerche fornendo ai lettori del web indizi sul fatto che in realtà si trattasse di un’operazione di viral marketing abbastanza spinta, anche se, facendo una ricerca in internet, c’erano in effetti molti riferimenti per capire che la promozione in realtà riguardava la pubblicazione del libro Thomas Jay di Alessandra Libutti, che la stessa autrice aveva già pubblicato anni fa con un’ altra casa editrice.  Di  tutto questo c’è traccia nella rete.

E molti sono stati i commenti in rete su questa vicenda, alcuni molto severi sul modo di far passare come reali notizie che invece appartengono alla fantasia, alcuni si sono scagliati contro la Fazi, sostenendo che un libro deve potersi reggere sui propri contenuti senza ricorrere a stratagemmi fuorvianti, senza confondere cioè i piani della realtà e della fantasia. Alcuni hanno anche proposto di informare le autorità americane. Molti altri ancora invece si sono detti incuriositi e disponibili a leggere il libro. Insomma le reazioni sono state molte e differenti.

Però scavando un po’ nella storia dell’opinione pubblica americana e non, questa operazione  ha rivelato alcune analogie con il caso di Caryl Chessman, che, fra gli anni ‘50 e ‘60 del novecento, rinchiuso nelle carceri americane, scrisse quattro libri. Chessman aveva al suo attivo ben 17 capi d’accusa, una condanna all’ergastolo e due condanne a morte. Montato come caso letterario ( i libri erano di qualità non eccezionale) divenne ben presto, da operazione di marketing,  il primo caso di mobilitazione dell’ opinione  pubblica- sia livello nazionale che internazionale- contro la pena di morte. Persone da tutto il mondo fecero appelli per far riaprire il processo, perché Chessman si proclamava innocente e cercò di convincere tutti proprio con i suoi libri. dopo otto rinvii, due giornalisti presero a cuore il suo caso ma senza successo perché, Chessman il 2 maggio 1960 fu giustiziato.

Un paio di curiosità: il cognome del protagonista del romanzo scelto dalla scrittrice era Lorenzini, lo stesso cognome del grande scrittore toscano noto come Carlo Collodi. Inoltre un certo Thomas Jay nel 1958 proprio in Inghilterra pubblicò un libro dal titolo The encyclopedia of fads and fallacies: fools believe them, un libro sulle opinioni e le credenze errate degli uomini. Sembra quasi un gioco letterario, connesso alla promozione, anche se la stessa autrice mi ha poi confermato che non c’è nessun legame fra i due Thomas Jay.

Incuriosita da questa storia, ho deciso di contattare direttamente Alessandra Libutti, l’autrice di Thomas Jay, che è nata in Italia, a Roma, dove si è laureata in Storia e Critica del Cinema ma che vive a Hertford, in Gran Bretagna.

In attesa di ricevere una risposta da Alessandra Libutti, nel frattempo la casa editrice Fazi ha messo in commercio prima in formato ebook il romanzo Thomas Jay, e il 21 marzo ha pubblicato una nota sul sito www.freethomasjay.com in cui svelava l’operazione di lancio del libro.

Il libro sarà disponibile in formato cartaceo dal 30 marzo, ma ora la curiosità è di conoscere qualcosa di più sul libro e sulla sua scrittrice.

Qui di seguito l’Intervista ad Alessandra Libutti

Alessandra, se dovesse descriversi con poche parole cose direbbe di sé?

«Mamma per scelta, insegnante per passione, scrittrice per necessità, perché quando ti viene in testa un personaggio come Thomas Jay o lo scrivi o impazzisci».

Pochi giorni fa si è diffusa fra i blogger la notizia di un uomo di origini italiane prigioniero in America e condannato all’ergastolo. E’ presente un video con alcun interventi di persone che parlano di quest’uomo come di un grande scrittore: è Thomas Jay. Dopo un giro di verifiche si è scoperto che si trattava di un’operazione viral marketing per promuovere proprio il suo libro, Thomas Jay, da parte della casa editrice Fazi di Roma. E’ stato creato anche un sito del comitato per liberare, appunto, Thomas Jay, ma, al momento in cui le pongo queste domande, non è ancora uscita nessuna smentita ufficiale della non esistenza di questo personaggio, almeno nella realtà. Cosa ne pensa di tutto questo?

«La smentita è stata diffusa su www.freethomasjay.com e via comunicato stampa tra il 21 e il 22 marzo. Cosa ne penso? Ci sono cose della campagna che mi sono piaciute e altre che non mi aspettavo. Mi è piaciuta l’idea del mockumentary ( un prodotto di fiction che si presenta come un documentario n.d.r.), meno le petizioni. Mi era stato detto che sul sitowww.freethomasjay.com, insieme al lancio del mockumentary sarei comparsa io, in video, svelando che si trattava di un personaggio letterario. L’intervista era stata realizzata a febbraio, ma il video non è mai andato online. Ho scoperto solo più tardi che la strategia era cambiata. Certo, avrei preferito maggiore trasparenza e comunicazione, ma ho scelto di sospendere il giudizio e osservare quello che succedeva. Far passare un’opera di finzione come un avvenimento reale non è cosa nuova (lo aveva fatto Orson Welles già nel 1938), ma nell’era di internet si può solo “pretendere” per poche ore. La maggiore risonanza va di pari passo con le tracce dei link. Era ovvio che il “mistero” avrebbe retto solo qualche click.  Per questo, anche se all’inizio ero sconcertata, non mi sono opposta. Non l’ho visto come inganno. Comunque mi dispiace se qualcuno si è sentito preso in giro».

Lei aveva già pubblicato questo romanzo con un’altra casa editrice, pensava che un giorno il suo romanzo avrebbe avuto un’altra opportunità di essere pubblicato e diffuso?

«No, lo speravo, ma non ci credevo. Avevo appena ripreso possesso dei diritti, per l’inadempienza di Neftasia, che non mi aveva mai corrisposto le royalties. Stavo considerando se metterlo nelle mani di un’agenzia letteraria, ma fui anticipata dalla mail di Fazi: lo avevano letto, gli era piaciuto e mi chiedevano un incontro. Pensai “ma chi glielo ha mandato?” Ma non glielo aveva mandato nessuno, un editor lo aveva acquistato su IBS. A volte le cose succedono così».

E ora veniamo al libro. Com’è nata l’idea di Thomas Jay? Quali sono le ragioni profonde di una storia che affronta sia il tema della scrittura sia quello della prigione e dell’ergastolo in America?

«All’inizio un piano razionale non c’era. Mi venne in mente un ragazzino, chiuso in una cella, che scrive un romanzo più grande di lui, così cominciai a seguirlo. La storia è nata come un gioco creativo, fatto d’infinite varianti, perché ciascun bivio dava vita ad una storia diversa. E’ per questo motivo che il processo creativo di Thomas Jay ha finito per diventarne uno dei temi, vi è confluito spontaneamente. Leggevo romanzi, biografie, guardavo film, e da ciascuno prendevo in prestito o imparavo qualcosa. Da Genet e Truffaut presi in prestito il rapporto con il mentore. Solo che, nel caso del mio personaggio, il mentore non lo avrebbe salvato. E’ intorno a questo fallimento che ho costruito il romanzo. Ho scelto l’America come il luogo “altro” per eccellenza; un luogo che ponesse il protagonista in una realtà estranea, e anche per sfuggire al contesto storico politico italiano. Mi occorreva una situazione lontana ed estrema allo stesso tempo, e mi ricordai della legge del Three Time Loser (poi ribattezzata dei Three Strikes). Thomas Jay doveva perdere tutto ma trovare la forza di amare la vita; doveva essere Clive il paralitico che scala le montagne».

L’idea che il libro Thomas Jay, sia un’autobiografia del protagonista indirizzata alla moglie Ailie è stata una scelta ispirata oppure un modo narrativo che le si è offerto in modo spontaneo?

«La biografia del protagonista nasce prima del personaggio di Ailie e molto tempo prima del romanzo. Solo quando mi decisi a scrivere affrontai  il problema della struttura. Ma la presi larga, m’inventai Ailie e affidai la narrazione a lei. Purtroppo non funzionava. La versione finalista al Calvino  nel 2002 aveva già fatto dei passi avanti: era un epistolario in quattro parti, due delle quali narrate Thomas Jay. Entrare nel personaggio di Thomas Jay e dargli una voce credibile è stato un processo lungo. La versione pubblicata per Neftasia nel 2007 era per due terzi narrata dal protagonista. Alcuni lettori di aNobii mi segnalarono che ritenevano la parte narrata da Ailie stilisticamente inferiore rispetto al resto: nei panni di Thomas Jay la mia scrittura risultava più convincente. Così quando da Fazi mi fecero la stessa osservazione, la riscrissi. E’ una parte anomala perché non rientra nell’epistolario. Thomas Jay racconta al lettore e non ad Ailie. L’ho immaginato scriverla nel presente, molti anni dopo la vicenda ».

Che cosa rappresenta per lei la scrittura?

«La scrittura per me è comunicazione. Non è mai un fatto privato. A Thomas Jay affido parole che mi appartengono:“Non ho mai scritto per me stesso. Non sono mai riuscito neanche a tenere un diario. Ho scritto per offrire la parte migliore di me. Ho scritto per comunicare la speranza che cercavo”».


Che consiglio darebbe a chi vive la scrittura come un’esigenza profonda ma non ha il coraggio di mettersi veramente alla prova né di uscire allo scoperto?

«La paura di mettersi allo scoperto è intrinseca di chi scrive cose che all’apparenza sembrano così lontane da quella che riteniamo sia la percezione degli altri nei nostri confronti. Questo è poi uno dei temi portanti di Thomas Jay: l’inconciliabilità tra il nostro mondo interiore e il nostro essere e agire. Il protagonista si adagia nell’incognita perché non ha il coraggio di uscire allo scoperto, né di mettersi alla prova. E’ la scissione tra Stefano Lorenzini e Thomas Jay. Conciliare l’uno e l’altro è un processo di crescita. C’è poi il fatto di non riuscire a tradurre in parole quel mondo, e magari all’inizio quando esce ci appare storpiato, mentre in realtà aspetta solo di essere messo a fuoco. A scrivere non si impara scrivendo, ma riscrivendo».

Valentina Caffieri*

Ringraziamo Valentina Caffieri che ci ha permesso di riportare su VDBD il suo articolo e l’intervista pubblicata sul settimanale OgniSette



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