Thyssen Krupp: la giustizia non è d’acciaio

Creato il 28 febbraio 2013 da Albertocapece

Anna Lombroso per il Simplicissimus

In una società senza lavoro, quando se ne parla è per riferirsi a qualche crimine, a qualche delitto, a qualche ferita mortale inferta a diritti e garanzie. Come oggi: all’Ilva crolla un ponteggio a 15 metri di altezza in uno dei reparti che ospitano i forni. La vittima, Ciro Moccia, aveva 42 anni. Il suo collega Antonio Liti, che era al lavoro con lui sul piano di carico, è in gravi condizioni. E poi, sempre oggi, il rogo alla Thyssen non fu un omicidio volontario, ma omicidio colposo con colpa cosciente. E’ stata modificata la condanna per dolo eventuale all’amministratore delegato Harald Espenhahn, al quale in primo grado furono inflitti 16 anni e mezzo di carcere, ridotti adesso a 10 anni. La corte d’Assise d’appello presieduta dal giudice Gian Giacomo Sandrelli ha modifcato anche le altre pene: 7 anni agli altri dirigenti del consiglio d’amministrazione Gerald Priegnitz e Marco Pucci. Per il direttore dello stabilimento Raffaele Salerno, otto anni. Uno sconto di pena, peraltro già chiesto dall’accusa, è stato concesso al responsabile della sicurezza Cosimo Cafueri: 8 anni. Per Daniele Moroni la pena era già stata più bassa in primo grado (10 anni e 10 mesi): ridotta a 9 anni.

Stiamo perdendo la guerra mossa contro il lavoro e i lavoratori, l’eterna lotta di classe di chi possiede e vuole possedere sempre di più e per sempre contro chi non ha avuto, non ha e non avrà. Condotta con l’espulsione dalla terra dei contadini in Africa, il America Latina, in Asia, condannando alla marginalità degli slums e delle bidonville quelli che prima erano “cittadini”, inchiodando alla condizione di invisibili corpi nudi milioni di immigrati spinti da guerre, fame, catastrofi ambientali verso paesi sempre meno accoglienti.

Nell’occidente un tempo opulento – oggi solo più affetto da tremende disuguaglianze – l’attacco della classe vincitrice alle classi lavoratrici e alle classi medie ha preso la forma dell’aggressione ai sistemi pubblici di protezione sociale, alle garanzie e ai diritti. L’arma usata come al solito è il bisogno, la paura del bisogno, la minaccia del bisogno, il ricatto del bisogno. Lo spettro che si aggira sono la fame e il suo ritorno, che servono per intimidire, scoraggiare, ridurre in servitù, e per quello non si elimina. Dimezzare la povertà e il numero degli affamati entro il 2015 fa parte degli Obiettivi di Sviluppo del Millennio adottati da 198 paesi dell’Onu. Si stimava allora, nel 2000 che per sradicare la povertà ci sarebbero voluti 76 miliardi di dollari l’anno. Oggi ce ne vorrebbero forse 100. Ma un mondo che come un grande casinò galattico produce valore per 65.000 miliardi di dollari l’anno non ne vuole trovare 100, un seicento cinquantesimo cioè del totale, per spezzare il ricatto del bisogno estremo, della fame.

Allo stesso modo nel nostro Paese non sembra accettabile un’imposizione fiscale di qualche centinaio di euro per redditi al di sopra dei 200 mila euro pr garantire un reddito di cittadinanza. E’ che la classe capitalistica transnazionale è unita da un formidabile collante ideologico e da una avidità inestinguibile ed esercita una poderosa pressione politica, attraverso le leggi in tema di politiche fiscali, deregolazione della finanza, riforme del mercato del lavoro, privatizzazione dei beni comuni, emanate nei paesi pilota della controffensiva di classe e che il Fmi, la Bce, la Commissione vogliono imporre senza condizioni a tutti i partner.

Leggi, decreti, normative, direttive concepiti e approvati dai parlamenti sotto la spinta delle lobbies industriali e finanziarie hanno un duplice scopo: indebolire ul potere delle classi lavoratrici e medie e accrescere quello delle classi dominanti. E parte dell’egemonia aggressiva e dei ceti forti, consiste nell’impunità, nella possibilità di trasgredire, eludere, evadere, commettere reati crimini indisturbatamente o pagando, irridendo la giustizia, beffando i cittadini. Siamo sempre più indifesi se anche l’amministrazione giudiziaria cede alla pressione di una sedicente necessità, di una realistica opportunità, quella tanto richiamata di non dissuadere investimenti, se partiti e organizzazione che dovrebbero rappresentare i lavoratori, subiscono la fascinazione perversa di una crescita senza gli “ostacoli” delle regole e delle leggi, se intere città, se un intero paese si trova a scegliere tra salute e lavoro, ambiente e occupazione, diritti e salario.


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