Il Roadburn non c’entra nulla con i festival a cui siamo abituati. Poca gente, solo tremila persone, al chiuso, arrivi al quarto giorno che conosci più o meno tutte le facce dei convenuti, compresi i musicisti che, quando non sono sul palco, girano tra il pubblico a guardare gli altri concerti. Si svolge tutto in una piccola viuzza del centro di Tilburg, nella quale ci sono: lo 013 (la struttura principale, con tre palchi: il Main Stage, la Green Room e lo 01); di fronte a quest’ultimo, l’edificio dedicato a merchandising/mostre/cinema etc; e infine, venti metri più in là, il Patronato, di cui parlerò più diffusamente in seguito. L’unica struttura più distaccata è il Cul de Sac, un minuscolo pub a 50 metri di distanza. Vi risparmio l’odissea del viaggio di andata perché dopo lo Wolfszeit ogni sfacchinata mi sembra una passeggiatina di salute, ma sappiate solo che per colpa dei controllori di volo mangialumache d’oltralpe siamo arrivati alle nove di sera, perdendoci una quantità di roba impressionante: Salem’s Pot, Sub Rosa, Primitive Man, Minsk, Solstafir e soprattutto i Russian Circles, che non potete capire quanto ho bestemmiato quei maledetti mangiarane per avermi fatto perdere i Russian Circles.
PRIMO GIORNO
Per entrare subito nell’atmosfera da festival ci fiondiamo a prendere posto per gli EYEHATEGOD che suonano sul Main Stage. O quantomeno ci proviamo: lo 013 è strutturato come un cinema multisala, con un’infinità di porte, porticine, scale, uscite di sicurezza e interstizi vari che collegano le parti della struttura: siamo stati quattro giorni a bazzicare là dentro e ancora non ho capito come si arrivi al piano superiore della Sala 01 (quantomeno volontariamente, perché involontariamente ci sono capitato più volte, magari mentre cercavo di arrivare al bagno).
Dopo gli Eyehategod arriva il primo dilemma del festival: Bongripper, Mugstar o Goatwhore? Io propenderei per i primi, mentre Ciccio è indeciso tra gli ultimi due. Ma è stata una giornata molto sfiancante, e anche il sardo bastardo si convince a rimanere nel Main Stage per l’esibizione dei BONGRIPPER, che per l’occasione suonano tutto l’ultimo Miserable, feedback più feedback meno. Ogni musica va associata al giusto stato d’animo, e fortunatamente io ero in quello stato d’animo in cui rimani tutto il tempo riverso sui gradini, con la testa tra i ginocchi, affamato, stanco e lurido, mentre quei quattro soggetti fanno stridere le chitarre a un volume considerato fuorilegge in svariate parti del Pianeta. La chiusura ideale per il primo giorno di Roadburn.
SECONDO GIORNO
Ritorniamo in città e fa un caldo impressionante. Io mi sono portato dietro il guardaroba di un eschimese d’inverno ma qua rischio di sciogliermi al sole. Vista la bella giornata, comunque, ce ne andiamo tutti e quattro a fare un giro per il centro di Tilburg: io e Ciccio dobbiamo comprare gli ingredienti per i panini, mentre Stefano Greco è in preda a una shopping frenzy per un paio di scarpe da ginnastica. “Vuole assolutamente comprare delle scarpe da ginnastica”, ci spiega mesto il fratello Massimo, “è così tutti gli anni”. Non ricordo se alla fine siamo tornati in tempo per i VIRUS: ricordo solo che, quando ci siamo ribeccati, Stefano non era riuscito a comprare nulla.
Oggi è venerdì, la giornata curata da Ivar Bjornson e il tizio dei Wardruna, quindi ci sarà un nutrito distaccamento di gruppi norvegesi non molto in linea con il classico suono del Roadburn. Dei SOLSTAFIR a me frega più o meno quanto il campionato di calcio polacco: non mi fa schifo, però ecco, anche una Chievo-Empoli sarebbe più interessante. Nonostante ciò assistiamo al loro concerto, perché non c’era nient’altro da fare e perché non si può dire di no alla comodità del Main Stage. C’è un sacco di gente agghindata con maglie, toppe e bric-a-brac vario sui Solstafir: una cosa per me inspiegabile, ma così va la vita. Loro comunque sul palco non se la cavano neanche male.
Dopo l’ubriacatura da Fields of the Nephilim, un altro dilemma: andiamo al Patronato a vedere il secondo concerto degli Eyehategod e poi rimaniamo lì per i The Heads, oppure andiamo a curiosare dai Focus, di cui non conosciamo nulla a parte quella canzone? E senza considerare che ci sono anche i Tombstones che attaccano di lì a poco nella Green Room! Ci ragioniamo un po’ e alla fine decidiamo di non fare assolutamente niente se non gironzolare per lo 013 e mangiare i panini. Passiamo dai FOCUS giusto per sentire qualche vocalizzo ma la sala è strapiena, troppo sbattimento. La pigrizia ci mangia vivi e quindi torniamo placidamente a spiaggiarci al Main Stage, dove suonano i WARDRUNA, orfani di Gaahl.
Tocca finalmente agli ENSLAVED, a cui fra un po’ chiederemo una percentuale sugli incassi perché ogni volta che fanno un rutto io scrivo un articolo dicendo puntualmente “Ma che bel rutto! È il rutto più bello dell’anno in corso! È incredibile come gli Enslaved esistano da vent’anni e ancora riescano a ruttare così bene”, eccetera. Suoneranno anche il giorno dopo, ma il vero capolavoro è questo concerto, in cui faranno due pezzi da Frost (Loke e Fenris), uno da Eld (Alfablot) e addirittura uno da Hordanes Land (Allfodr Odinn). Superlativi assoluti random e boccali al cielo.
Dopo aver assistito a Fields of the Nephilim ed Enslaved nell’arco di cinque ore, io sono l’uomo più felice e soddisfatto del mondo. Sarei tranquillamente disposto ad andare ad un concerto di Jennifer Lopez senza lamentarmi troppo, perché ho finalmente fatto felice il mio me-stesso-tredicenne stando sotto al palco mentre Carl McCoy cantava Moonchild. Però la prima giornata di Roadburn non è ancora finita, e quindi andiamo a curiosare al Cul de Sac, ché ancora non ci siamo entrati: è un minuscolo pub a cinquanta metri dalla struttura principale, grande più o meno la metà del Sinister Noise, con un palco piccolissimo e pochissimo spazio per il pubblico, il quale si accalca tipo mandria di bisonti rinchiusi in un recinto con gli spilloni nei testicoli. Suonano le MORTALS, che avevo sentito di sfuggita su Spotify e che non mi erano manco dispiaciute troppo. Sono tre tipe di New York che fanno uno sludge blackettone e che, purtroppo, ridono mentre suonano. Non dovrebbero ridere mentre suoni musica del genere, qualcuno dovrebbe dirglielo.
TERZO GIORNO
Non ce ne saremmo mai voluti andare via dai Goblin dopo una sola ora di spettacolo, però al Patronato suona KING DUDE e comunque domani Simonetti suona tutto Suspiria quindi è ok. Il signor King Dude, al secolo Thomas Cowgill, sale sul palco da solo, vestito come un sardonico predicatore nazionalsocialista con la pistola nella fondina, con la chitarra elettrica ad accompagnarne le nenie. È una delle esibizioni migliori di tutto il Roadburn: lui è un intrattenitore nato, quasi uno di quei standing comedian americani con la chitarra e un variegato repertorio di sfottò verso i soggettoni nel pubblico. Musicalmente è un incrocio tra il neofolk e Johnny Cash, e lo è anche visivamente, in un certo senso; però dal vivo ci mette una pesantissima carica di umorismo che fa passare i cinquanta minuti di concerto in una folata di vento. A un certo punto si guarda intorno e dice “Mi stanno facendo suonare in una chiesa. Vi rendete conto? Dovevo venire a Tilburg per suonare in una chiesa“, e mi sono ricordato di Phil Anselmo all’Hellfest quando disse “Questi francesi sono proprio imbecilli: farmi suonare a mezzanotte, come se non sapessero che io a quest’ora sono sempre ubriaco“. Cowgill suona Lucifer’s The Light Of The World, un po’ un cavallo di battaglia, ma purtroppo non suona la mia preferita, Spiders In Her Hair, una specie di La Belle Dame Sans Merci col sorriso sulle labbra e l’odio nel cuore. Ora questo viene a fare il tour italiano, ma a Roma passa esattamente il giorno dei Blind Guardian (e dei Goat). Non posso mancare all’appuntamento col mio gruppo preferito quindi mi sa tanto che mi sposto a Bologna solo per lui, però ecco, cercate di andare a vederlo anche voi.
Nelle due ore e mezza successive che ci separano dalla seconda esibizione dei Fields of the Nephilim c’è parecchio imbarazzo della scelta, ma io mi adeguo al mood rilassato e pigro del Roadburn e lascio scegliere a Ciccio, che mi porterà prima dai MESSENGER (di cui non ricordo una singola nota) e poi dai THE HEADS, di cui ricordo solo che è stato un bellissimo concerto ma quando a un certo punto ho detto a Ciccio “Ehi, suonano i Black Anvil, andiamo a vedere i Black Anvil?” lui non si è opposto in nessun modo. Quindi ci andiamo a vedere un quarto d’ora di BLACK ANVIL che stavano evocando il Demonio di là nella saletta verde, giusto il tempo di renderci conto del gravissimo errore fatto scegliendo di non guardarli dall’inizio. Ricapiterà occasione.
Non ho più niente da chiedere alla vita per quest’oggi, quindi mi lascio trascinare da Ciccio prima dagli URFAUST (il cui concerto terminerà con abbondante anticipo per un attacco di tendinite del tipo) e poi dagli ZOMBI, la cui musica sarebbe tanto carina e simpatica se vivessimo in un film psichedelico del 1972. A un certo punto però si rompe le palle anche Ciccio e facciamo un giro incrociando casualmente lo show dei SAMMAL, che ci ha lasciato talmente soddisfatti che Ciccio si è scordato di citarli nel suo report e io stavo sbagliando il nome nel mio (avevo scritto MAMMAL). Concludiamo la serata ritornando dagli Zombi e sfattonando lì fino all’ora dell’appuntamento coi Grecos.
QUARTO GIORNO (AFTERBURNER)
Sono le 16.30 ed è proprio l’ora giusta per ritornare al Main Stage e sentire un po’ di chitarre ultrasaturate che fanno VROMMMM VROMMMM a cinque all’ora tra fischioni, feedback e senso di nausea. I BONGRIPPER marcano la loro seconda presenza in due giorni e Metal Skunk è presente e fedele alla linea.
Alla fine dei Bongripper abbiamo una mezz’oretta libera e decidiamo di provare a vedere se riusciamo a entrare al Cul de Sac per un concerto intero. Ci sono gli GNAW THEIR TONGUES. È stata una delle situazioni più surreali che abbia vissuto ad un concerto, ma è una cosa talmente complicata da spiegare che ne parleremo in seguito con un articolo a parte.
Forse per farci riprendere dal disagio che ancora ci sentiamo addosso dopo gli Gnaw Their Tongues, ci ritroviamo gli ANATHEMA sul palco subito dopo i Goblin. Anche questo è stato un concerto epocale, dato che si sono portati dietro Darren White e ‘Bimbociccio’ Duncan Patterson. Personalmente mi piacciono più che altro i primi Anathema, dopo di che vado un po’ a canzoni, diciamo. Da un punto di vista formale però è tutto davvero perfetto, e Vincent Cavanagh batte Darren White 10-0 per carisma e presenza scenica: il cantante di Serenades (e batterista sui primi demo dei Cradle of Filth, attenzione) ora sembra un fighetto screamo che si tira la maglietta mentre canta, tipo quello dei Linkin Park. Epperò la cosa in un certo modo funziona, forse perché sono i Cavanagh che la fanno funzionare, ma funziona.
Due ore e dieci di Anathema per me sono decisamente troppe, quindi con la scusa di andare in bagno vado a cazzeggiare nella adiacente Green Room e trovo questi scoppiati a nome TERMINAL CHEESECAKE che suonano qualcosa di pesantemente acido davanti ai pochissimi che non stanno dagli Anathema. Una decina di minuti per vedere che succede e torno per il suddetto set di Darren White. Poi ritorno ancora nella saletta verde perché sta suonando un gruppo chiamato THE GOLDEN GRASS, ed è bello che l’ultimo gruppo del Roadburn che vedo si chiami THE GOLDEN GRASS. In realtà gli ultimi saranno quelli che vedrò quando tornerò nella sala principale per ribeccarmi con gli altri, ovvero tali THE OSIRIS CLUB, che sono vestiti come monatti e suonano un rockettino floscio e stronzissimo. Sembrano i Tre Allegri Ragazzi Morti; e penso di aver detto tutto.
Torniamo verso la macchina e Stefano ci dice tutto orgoglioso di aver comprato le scarpe da ginnastica. Noi siamo ovviamente curiosissimi di vedere quale incredibile paio di scarpe unico al mondo abbia avuto l’onore di essere scelto, dopo 40 negozi di scarpe visti. Quindi Stefano apre la scatola e scopre un paio di gazzelle bianche e nere, tipo quelle che ti tirano addosso quando entri in un qualsiasi Footlocker. L’atmosfera del Roadburn fa questo e altro, fratelli del vero metal. Un solidale abbraccio a suo fratello che lo ha accompagnato in giro per tutti i negozi di scarpe della fantastica Tilburg; le porte del Valhalla ora per te sono un po’ più aperte, Max.
La mattina dopo è tempo di tornare. Lo so che è una frase fatta, ma è davvero difficile riabituarsi alla vita normale. Riusciamo a passare qualche ora ad Amsterdam e iniziamo già a fare programmi per il prossimo Roadburn. Ciò che ci ha lasciato è qualcosa di diverso da qualsiasi altro festival: da un Roadburn ritorni con la sensazione di esserci stato, di aver preso parte alla rappresentazione fisica di un sentimento, di un’attitudine alla vita, di un qualcosa di indefinibile che va molto oltre la musica. Per un amante della musica, assistere al Roadburn è l’equivalente di un’apparizione della Madonna a Medjugorie per un credente, o di un viaggio alla Mecca per un musulmano. È molto più di un concerto, e ti lascia qualcosa di diverso rispetto ad altri festival più grossi e blasonati. Il Roadburn è stato creato per passione, e pur essendo adesso molto cambiato rispetto agli esordi è riuscito incredibilmente a mantenere parecchia di quella passione iniziale; è un festival fatto da gente che adora questa musica almeno quanto me e voi, e che è frequentato esclusivamente da gente con la stessa passione, che compra uno dei pochissimi biglietti disponibili a scatola chiusa, senza poter aspettare di sapere chi ci sarà, perché 3000 biglietti finiscono in poche ore. Quest’anno c’erano pochissimi italiani tra il pubblico; se questo report ne convincerà anche uno solo in più a venire l’anno prossimo mi sentirò una persona migliore. (Roberto ‘trainspotting’ Bargone)