Quando ero un bambino i miei genitori mi regalarono un cane. Era un cucciolo che stava largo in una scatola di scarpe, aveva gli occhi marroni e il pelo nero come un tizzone di legno lasciato bruciare.
Non avevo molti amici, alla compagnia di un bambino come me preferivo la solitudine della mia cameretta illuminata dalla violenta luce di una torcia che curiosava negli angoli bui di quelle quattro mura in attesa di un nuovo gioco da inventare e quel cagnolino divenne presto il complice implacabile di ogni fantasia, il guardiano fedele di ogni notte, l'ombra severa di ogni mio passo.
Mi aspettava buono al mio rientro da scuola e festeggiava con sincopatici salti di gioia le passeggiate pomeridiane. Quando cominciava a fare freddo riscaldava i miei sonni sotto le coperte. Avevo Ralph, così lo chiamai, e per il tempo che fu, rimase il più devoto degli amici. A Ralph bastava quel tacito e perpetuo accordo secondo cui avrebbe vissuto in mia funzione a patto che lo sfamassi e lo lasciassi giocare con le mie scarpe vecchie. Che buffo quel cane con tutto quell'amore gratuito. Anche i miei genitori mi amavano profondamente, ma avevo la scomoda percezione che il loro affetto si nutrisse del contorno immacolato di un figlio, tutto sommato, bravo. Sapevo che a Ralph non avrei mai dovuto giustificare un fallimento, che non mi avrebbe sgridato se non mi fossi lavato i denti prima di andare a letto, che con lui non avrei dovuto scegliere una parsimoniosa misura per esaltare un buon successo. Insomma, posso affermare di aver voluto bene a Ralph, nel modo impuro in cui si ama per gratitudine, per buona educazione, nell'unico modo in cui mi fosse possibile amare qualcuno.
Quindi non so spiegarvi perché, dopo due anni di vita insieme, abbandonai Ralph. Un pomeriggio uscimmo per la consueta passeggiata e lo legai al tronco di un albero. Rimasi ad osservarlo da lontano dopo avergli voltato le spalle mentre mi faceva eco il suo struggente guaito. Lo guardai sedersi, piegare le orecchie indietro ed attendere speranzoso il mio ritorno. Anche dopo essersi sdraiato sull'erba, stanco e assetato, non chiuse gli occhi: non si sarebbe mai perso il miraggio di me che correvo incontro a lui. Restai lì finché ne ebbi voglia, poi verso l'ora di cena feci rientro a casa. Avrei potuto tenerlo con me, Ralph, ma scelsi di non farlo, scelsi di essere l'artefice del suo massimo dolore, scelsi di togliergli il più grande dei suoi amori e di guardarlo perdere la speranza.
Sono passati molti anni, per quanto ne so Ralph potrebbe essere tanto morto quanto vivo e trovo conforto nel pensare che da qualche parte gironzoli ancora, pensando a me come all'unica gioia della sua vita, contando i giorni del mio ritorno.
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