Terezinha, la settantenne seduta accanto a me sul volo da Darwin a Dili, ha invece una memoria più lunga “Sai, volare passando da Bali mi costerebbe molto meno” mi spiega sorridendo “ma l’Indonesia preferisco evitarla”. Se questo sentimento di pace sia soltanto superficiale è difficile da dire. Gli anziani non dimenticano, ma la nuova generazione, in compenso, guarda lontano, che per essere nel paese più povero dell’Asia è già un grande passo.
Visitare il Timor oggi mette di fronte a una tale mancanza di organizzazione che viene da chiedersi come sia possibile crescere se le basi per la costruzione di una società non siano neanche state concepite. Non solo mancano le infrastrutture, ma non esiste una moneta locale e non esiste turismo, che significa che i pochi dollari americani presenti circolano nelle mani delle stesse persone. Non ci sono prese della corrente standard, non è possibile comprare una cartolina da spedire a casa. Il commercio e i sevizi sono divisi tra chi non può permettersi niente e chi, come i funzionari dell’UN che hanno occupato il territori nell’ultimo decennio, può permettersi tutto. E ora che questi stanno partendo anche queste strutture non sanno a chi rivolgersi.
Capire come si arriva a questo punto è difficile senza conoscere l’evoluzione di questo angolo di mondo. L’invasione da parte dell’esercito Indonesiano nel 1975, dopo la decisione di abbandonare la colonia da parte dei portoghesi, è stata letale. Almeno un quarto della popolazione è scomparso nei primi quattro anni di occupazione, e moltissimi sono stati quelli che sono fuggiti in Australia ed Europa, in parte anche grazie al supporto del Portogallo. I timoresi hanno vissuto nel caos per gli ultimi trent’anni, e non solo quello delle varie guerra da cui sono passati, ma anche da una confusione interiore, quella di non avere identità, di essere sempre sotto il controllo di qualcun altro.
John, un altro espatirato che nel ’75 è riuscito a fuggire andando a lavorare in una miniera australiana mi dà la sua opinione “I giovani sono ottimisti, perché l’ottimismo è l’unica cosa a cui aggrapparsi in un posto dove niente funziona. Nessuno investe nel nostro paese, i turisti non arrivano, pochi parlano inglese. Non siamo pronti a essere lasciati soli, e rischiamo di cadere un’altra volta”. John visita la sua famiglia almeno un paio di volte l’anno, quando lo incontro sul traghetto per l’isola di Atauro mi spiega quale sia realmente il problema “Negli ultimi anni siamo sopravvissuti esclusivamente grazie agli aiuti umanitari e al supporto di governi esterni, anche di quelli che in passato ci hanno voltato le spalle. L’unico motivo perché i fondi continuano ad arrivare, soprattutto dall’Australia, è per le nostre riserve di petrolio, per la ricchezza del nostro territorio. Noi questa ricchezza non siamo in grado di sfruttarla, e loro lo sanno. Il giorno in cui chiuderanno i rubinetti del denaro per noi sarà merda, e saremo costretti a venderci se vogliamo restare a galla.”
Angelino, il tassista che mi porta alla statua del Cristo Rei, uno dei simboli della capitale, quando gli spiego che sono in Timor Est in vacanza, mi ride in faccia. Non capisce, non ne vede il senso. “Why? Why?” continua a chiedermi.
A dieci anni di distanza, il Timor Est si trova ancora in una condizione estrema. La speranza sembra essere l’unica spinta ad andare avanti. Lucio e Martino mi vedono e vogliono farsi fotografare. Non è la prima volta che accade, sono in molti, dai bambini ai più anziani, che vogliono essere notati, cercano un contatto. Quasi nessuno parla inglese, tutti fanno segno di scattare puntando il dito verso sé stessi. La paura di essere dimenticati di nuovo, di essere abbandonati, esclusi dal resto del mondo come accadde qualche anno fa, è ancora il timore più grande.