Tokyo Ghoul: la Vittoria del Contesto sul Testo

Creato il 10 marzo 2016 da Dietrolequinte @DlqMagazine

In fondo, nel suo lato peggiore, e cioè quello di stampo televisivo che cerca industrialmente consenso, l'animazione giapponese ha sempre visto la vittoria del contesto (tecnico) sul testo (narrativo). Non tanto per gli inevitabili cambiamenti che le traslazioni dei manga su schermo comportano in quanto le animazioni, la musica, le colorazioni, il doppiaggio stravolgono obbligatoriamente il senso di una tavola bensì per il distacco produttivo che lo studio d'animazione deputato alla trasposizione ha nei confronti del materiale di partenza.

Sebbene un manga possa sembrare il più accurato degli storyboard e la più pronta delle sceneggiature, quando si sceglie di farne un anime c'è sempre qualcosa da aggiungere e qualcosa da togliere, soprattutto se si deve sottostare a forme visuali contingentate (due serie brevi da dodici puntate di venticinque minuti ciascuna). Questa limitata analisi è centrata soprattutto sul caso dell'anime Tokyo Ghoul che è esemplificativa, anche in virtù del successo che ha riscontrato, di questa tendenza dell'animazione giapponese di maggior consumo. Ma più precisamente, in cosa si traduce questa predominanza dell'insieme tecnico sul sottoinsieme narrativo?

Nel caso particolare che stiamo esaminando, già l'omonimo manga di partenza di Sui Ishida basava la sua forza attrattiva su precisi elementi di coolness sia giapponese che occidentale, in questa stramba globalizzazione di pubblico che è in atto da vent'anni: breviario di sentimenti viscerali quali tortura, cannibalismo, solitudine (in rigoroso ordine gerarchico, perché non avere nessuno vicino per i nipponici è la cosa più terribile), ambientazione notturna e dalle tinte fosche (ma pallide, mi si consenta l'ossimoro, per indicare una particolare tendenza che confina più col senso dark degli emo che del black metal), pletora di personaggi che spaziano dalla solita bambina kawaii (Hinami) al folle deviato psicologicamente (Jūzō), secchiate di sangue, scontri fantasiosi e ben coreografati.

Il famoso studio Pierrot, incaricato di portare Tokyo Ghoul sullo schermo, mantiene questi fattori e li potenzia aggiungendo alcune peculiarità del mezzo televisivo: uso intelligente della computer grafica nelle movimentate scene di combattimento, ottimo doppiaggio, musiche e sigle affidate a gruppi strumentalmente dotati ed innovativi. Riguardo quest'ultimo aspetto rimandiamo all'ascolto della bella opening della prima serie, Unravel di TK dei Ling Tosite Sigure, che, astutamente, viene usata nella sua versione completa nel momento di massimo apice emozionale con la trasformazione del protagonista Kaneki alla fine della prima serie e, nella sua versione acustica, in una maniera più furbesca che furba, in uno dei tanti momenti topici della seconda stagione. Insomma, due segmenti videoclip che connotano, con forte coinvolgimento spettatoriale e al contempo debolezza semantica, Tokyo Ghoul poiché ne evidenziano i limiti di genere che pretendono la presenza di scene madri a scapito della coerenza narrativa.

L'anime diretto da Shuhei Morita, infatti, nel corso delle due stagioni sembra vagare indeciso tra la psicologia individuale di un ghoul neofita che deve imparare ad accettare la sua nuova natura antropofaga, l'analisi sociologica del suo nuovo gruppo di compagni e l'indefinitezza etica tra umani e mostri. Ma se la prima stagione, pur con qualche lentezza (la convivialità dell'Anteiku è fin troppo evidenziata), riesce a presentare con buone sfaccettature i personaggi e i loro drammi, la seconda introduce sbrigativamente new entries che vivono e muoiono nell'arco di poche puntate senza un perché narrativo. La sfilata degli investigatori della CCG, anonimi come impiegati giapponesi, serve più che altro a fare da specchio riflesso al carisma dei membri del gruppo terroristico di ghoul dell'Albero di Aogiri, le cui motivazioni nell'arco di due serie non sono ancora state rese note.

Tokyo Ghoul soffre purtroppo della malattia di essere un prodotto in fieri ed il fatto che il manga su cui si basa sia ben lungi dal finire lascia presagire che anche l'imminente terza stagione si possa rivelare un sentiero che si interromperà bruscamente all'ultima puntata. Quello che resta, dopo la visione di ventiquattro puntate, è finora un anime che ha badato a ben delineare principalmente le caratteristiche dell'immaginario mondo di ghoul, dalla presenza dei sanguemisto che sono più forti di entrambe le specie a cui appartengono perché posseggono il meglio delle due razze (niente di nuovo sotto il sole del fantasy, basti pensare alla figura di D dei romanzi di Hideyuki Kikuchi o al marvelliano Blade) fino alla differenziazione dell'arma d'attacco dei ghoul, la kagune, che è distinguibile in più tipologie di diversa potenza e velocità (e anche qui la mente ricorre ad altri prodotti shōnen, come ad esempio Naruto, che già di suo era stato accusato di eccessiva derivatività!).

Per quanto riguarda il fattore più meramente narrativo assistiamo, invece, a un impasto di cliché che porta, con una gestione della tensione veramente sciagurata (i motivi dello scontro sono spiegati in maniera abborracciata), alla mattanza finale tra investigatori umani e gli unici ghoul buoni dell'Anteiku. Insomma, Tokyo Ghoul è l'ennesimo anime in cui lo stile spicca più della forma. Che i giapponesi sapessero disegnare, suonare e doppiare ormai abbiamo imparato a capirlo, speriamo che sappiano sorprenderci elevando i loro prodotti medi anche a livello di scrittura.


Potrebbero interessarti anche :

Possono interessarti anche questi articoli :