Voto: 8,5/10
Uscita in Italia: 12 novembre 2010
Fincher dirige un soggetto che sembra non avere stimoli e ne fa un film classico, imbevuto di generi, che non perde un attimo di tensione. Il miracolo è la costruzione narrativa, che evita la scansione elementare e destruttura i singoli avvenimenti, definendo particolari e sottotrame importanti ai fini espositivi, alla "Quarto potere", come hanno osservato, impropriamente alcuni. Fincher, inoltre, al montaggio sicuro e veloce, aggiunge una partitura sonora dissonante, ricca di suoni sinistri e poco cinematografici, filrmata Trent Reznor, che è il sottotesto che permette di mantenere l'atmosfera ansiogena per tutta la durata del film. Ottimo il cast, con Jesse Eisenberg in cerca di premio e Andrew Garfield che spicca come protagonista-semipositivo. Fincher è così bravo che rende la genesi del social network più noto e le sfumature del personaggio Mark Zuckenberg in modo non ovvio, amplificando la dimensione thriller anche nell'elemento giudiziario e lasciando interdetti e colpiti, in più punti, nella rappresentazione della nuova generazione da web, da college. "The Social Network", infatti, più che interessarsi allo scambio telematico, presenta una storia di amicizia universitaria, minata dall'ambizione e dalla ricerca di un riscatto sociale.
Voto. 8,5/10
Inedito in Italia
"Dogtooth", del regista greco Giorgos Lanthimos, è la manifestazione di un'originalità europea, o meglio, mediterranea, ancora da scoprire (e accettare) veramente nel mondo cinematografico odierno. Per molti versi, la pellicola sembra figlia della complicazione orientale, ma la supera in violenza, anche visibile, e in tensione erotica, che assume caratteri, sin dall'inzio, inclini al morboso. Al centro del film la tematica dell'educazione impartita ai propri figli, paragonata a quella necessaria per istruire i cani, in superficie una famiglia che non mostra, sin dall'acquisizione di vocaboli privati del loro senso reale, alcun contatto con il mondo esterno, e vive confinata in uno spazio ristetto e invalicabile, in cui si manifesta ogni possibile psicopatologia. E' un film disturbante e disturbato, ma che lascia in balia di un senso di oppressione non facilmente riportabile con semplici parole. E' un'esperienza, ma non la consiglio a tutti, perchè è forte, dirompente e anche nauseabonda.
Voto: 9/10
Inedito in Italia
Orso d'Oro a Berlino, "Bal" è la conclusione a ritroso del personaggio Yusuf, realizzata dal regista turco Semih Kaplanoğlu in tre diverse pellicole. Il film è un'attestazione poetica, naturalistica, ricca di momenti di tenerezza indescrivibili, ma è anche una riflessione amara, dei limiti e dei drammi naturali, sull'infanzia che sogna e segna, sull'importanza del contatto con il mondo adulto. E' un'opera discreta, che non eccede nel sentimentalismo, ma punta ad inquadrare il mondo di un bambino, Yusuf appunto, che vive in un preciso contesto sociale, e trova nel padre, cercatore di miele pregiato (da qui il titolo, con carica allusiva prorompente per la piega narrativa), il mito-amico a cui ispirarsi. "Bal" è un sogno, come dicevamo, e un incubo, una passeggiata nella felicità, e un'altra nell'ambivalenza della credenza, nella foresta paurosa ma anche emotivamente forte. La circolarità del film, la perfezione formale delle sequenze, i silenzi e i rumori naturali irrompono come se vi fosse una realtà da toccare dinanzi ai nostri occhi. E Boran Atlas, il piccolo protagonista, è l'elemento imprescindibile per l'empatia dello spettatore con il film.
Voto: 9/10
Uscita in Italia: 4 giugno 2010
E' un pò la sorpresa della chart, e soprattutto è una mia sorpresa l'averlo amato così tanto. Ho iniziato la visione del film tre/quattro volte, ma, in un modo o nell'altro, ad un certo punto ho interrotto, stanco e annoiato. In realtà confesso la mia assoluta incapacità iniziale di entrare nell'ottica cinematografica del regista Elia Suleiman. Il film mi appariva una forzatura, ricco di momenti da "no-sense" assoluto, slegata in fase iniziale e anche, per certi versi, incomprensibile. Poi la mia curiosità ha avuto il sopravvento. E ho terminato la visione. Ed è stato un colpo di fulmine che mi ha messo in difficoltà sulla scelta del film migliore visto nell'ormai trascorso 2010. "Il tempo che ci rimane" è un'arguta allegoria della condizione degli Arabi in territorio palestinese, che viene simbolicamente fatta cominciare dal famoso 1948, anno di crezione e ufficializzazione dello Stato d'Israele. Il film parte da lì, e utilizza una sagace ironia per descrivere un mondo in cui vince il contrappasso e domina un'assoluto minimalismo delle azioni. In questo ottica, fin dall'inzio, il film è folgorante, con il tavolino centrale davanti al bar, e le indicazioni divertite ad un soldato della Resistenza. Tutto il film si basa su un'ironia stralunata, "fuori dal mondo" nel senso più deciso della parola, che accompagna le vicende storiche. E il film, fin dal titolo, si propone di ampliare la propria portata storica, includendo la vita, "il tempo che rimane da vivere", ai vari protagonisti, con ellissi repentine e fatti taciuti, sempre nella medesima dimensione di "ospiti" in terra straniera. Se nella fase passata si riscontra un ripetersi coatto delle medesime situazioni, che suona divertente e rappresenta una fase stabilizzata, anche storicamente, della vita nella zona, nella fase presente, con il regista (il film unisce molti momenti autobiografici) che interpreta il sè stesso di oggi, si sottolinea l'occidentalizzazione e l'assoluto caos di un mondo che ha subito uno stravolgimento totale rispetto a ciò che era anni prima (la sequenza della sala d'attesa ospedaliera ne è un esempio riuscitissimo). Più che esprimere con le parole, contano, ancora le singole situazioni, paradossali, emotivamente forti, amorevoli ed è la recitazione di un ensamble quasi muto a dire molto sulla reale condizione emotiva, mentre trascorrono e passano, finiscono, le vite di chi si è amato, dei personaggi che hanno scandito le varie tappe del film, e il mondo, la situazione di reclusione delle popolazioni arabe, scandita in vari capitoli introdotti da didascalie, è sempre la stessa. La dimensione privata e la fuga sono la salvezza e Elia Suleiman non può che partire, lasciando la sua terra, non prima dell'ultimo commiato, caloroso, mentre ormai, anche rispetto al suo mondo, è un pesce fuor d'acqua. E' un film superbo in ogni aspetto. E, dopo averne scritto, non posso che, in un certo modo, affiancarlo a "The Ghost Writer" per preferenza. Consideratelo un ex-aequo.
The Ghost Writer - L'uomo nell'ombra
Voto: 9/10
Uscita In Italia: 9 aprile 2010
Il miglior film dell'anno non poteva che essere "The Ghost writer" di Roman Polanski. L'assoluta perfezione formale si accompagna ad una storia tradizionale, un thriller di vecchia fattura che cita, a più riprese, Hitchcock. Ma "L'uomo nell'ombra" va oltre una dimensione immediata e nasconde in sè stesso un'analisi che è insieme politica (con il personaggio di Pierce Brosnan che sembra essere un alter-ego evidente di Tony Blair) e individuale.
Un miracolo di misura e calcolo, di struttura e di articolazione, di macchina e di ambiente, di tensione e calma, di scrittura (evidente il lavoro fatto dallo sceneggiatore Robert Harris, autore del libro omonimo) e di politica nel senso dispregiativo per eccellenza. E' lo stile e la storia, la verità e la bugia. Su quest'ultima dicotomia si basa l'intera vicenda. E la bugia non è solo depistaggio interno, per il ghost-writer, ma bugia per lo spettatore, che si trova di fronte a un qualcosa bypassato dalla ragionevolezza, ricco di intriganti colpi di scena, che si annullano a vicenda, e di "non detto", o meglio di articolazione coerente, disseminata di puzzle che combaciano in apparenza, ma non svelano la realtà, sfuggevole anche se chiara alla fine, destinata all'oblio, forse.
La ragione individuale del film sta nella condizione in cui Polanski si è trovato a realizzarlo. Una parte delle riprese è, infatti, avvenuta mentre il regista era imprigionato per un crimine di anni addietro.
Roman è un pò il ghost-writer, l'uomo chiamato a depositare per iscritto le memorie del politico al centro di molti scandali. Un uomo, il regista, che scrive le indicazioni dalla prigione, in minima parte, perchè altri le realizzino. Un personaggio, interpretato da Ewan McGregor, che confessa e sputa il sacco, senza freno. Un character che vive un contesto di disagio, circondato dalle mura quasi invalicabili di un edificio, la dimora del politico, immerso in una distesa arida di colori e fredda, gelida, in ogni suo minimo dettaglio. E se l'esterno è una visione dall'alto di un carcere, l'interno è una prigione comfortevole ma asettica, con aspetti da bunker e luci da ospedale. E' all'avanguardia ma povera. La fuga è un viaggio difficoltoso quanto la scoperta della verità. "The ghost writer" affascina e conquista dalla prima all'ultima sequenza.