La pubblicazione dell’articolo rappresentò la scintilla che scatenò i fatti drammatici dei giorni successivi. Il 21 e il 22 settembre, i numerosi cittadini torinesi scesi in piazza (con sabauda compostezza) contro lo spostamento della capitale furono attaccati a diverse riprese dalla forza pubblica che non si peritò di far fuoco senza tanti riguardi. Rimasero sul terreno 52 morti e 187 feriti. L’inaudita carneficina destò grande scalpore in Italia e all’estero. La successiva inchiesta parlamentare appurò che l’ordine di repressione era partito da uno dei ministri del governo Minghetti, il quale diede le dimissioni da presidente del Consiglio: l’ispiratore fu ritenuto Silvio Spaventa, segretario generale del Ministero dell’Interno nonché braccio destro del ministro. La repressione era stata resa più crudele dagli esecutori materiali: soldati, agenti di polizia e allievi carabinieri, sobillati da provocatori prezzolati, avevano tirato alla sans-façon sulla folla disarmata. Le autorità di Pubblica Sicurezza, il questore Chiapussi per primo, furono destituite. Al termine dell’inchiesta, tuttavia, il Parlamento decise di non attribuire ad alcuno la responsabilità di quelle tragiche giornate: i mandanti rimasero perciò impuniti.
Un mese più tardi, il 30 ottobre, Massimo D’Azeglio scrisse su L’Opinione un articolo che si concludeva così: “Io credo vi sia molto da dire sul trattato, ma che, date le circostanze presenti, visto che è stato acclamato dalla Nazione, visto che noi torinesi ne veniamo particolarmente a soffrire, visto che in Italia la questione capitale non è quella della capitale ma quella della concordia, opino che noi per primi dobbiamo rassegnarci ad accettare il trattato. Soltanto che non vorrei sentire parlare di compensi. Al sacrificio mi sento disposto, a presentare il conto no”. L’orgoglio tutto piemontese espresso da tali parole non celava – anzi, paradossalmente sottolineava – che la Ragion di Stato doveva prevalere su ogni altra questione. Il 16 novembre, il Senato approvò la Convenzione di Settembre con 134 voti a favore del trasferimento, tra i quali quello dello stesso D’Azeglio, contro 47 (e due astenuti). Tre giorni dopo, stessa schiacciante maggioranza alla Camera dei Deputati: 305 voti a favore, 68 contrari e altri due astenuti. Il 15 dicembre la Gazzetta Ufficiale pubblicò la legge che trasferiva la capitale da Torino a Firenze, e tanti saluti.
Il primo gennaio 1865, in occasione del capodanno, Vittorio Emanuele II si recò come consuetudine allo spettacolo offerto dal Teatro Regio e qui ricevette un’accoglienza a dir poco gelida. La faccenda si ripeté il 30 successivo, quando né il sindaco né il consiglio comunale parteciparono a un ballo di corte. La situazione, già tesa di per sé, fu aggravata dal comportamento violento che le guardie inviate dalla questura tennero contro una folla di manifestanti che era scesa in Piazza Castello per commemorare le luttuose giornate del settembre precedente. Mostrando regale sdegno per tanta ingratitudine (dopotutto chi aveva unificato l’Italia, boia faus!), Vittorio Emanuele lasciò Torino per la tenuta di San Rossore e, infine, raggiunse Firenze.
Il 26 aprile 1865 il trasferimento della capitale diventò ufficiale e, a questo punto, nessuno ebbe più da ridire: l’accordo diplomatico con i francesi era salvo e la cittadinanza aveva ingoiato il rospo tutto intero. La data più significativa, però, resta quella del 7 maggio, quando all’Hotel Trombetta si tenne un gran banchetto in onore di cinquantanove deputati che davano l’addio alla vita parlamentare subalpina. Come sempre capita in Italia, tutto si conclude a tarallucci e vino. E il torinese, quando viene sottoposto a un sopruso, non capisce (o finge) ma infine si rassegna e si adegua educatamente allo stato delle cose.
Il 12 settembre, l’opinione pubblica fu scossa dal furto sacrilego di una lampada votiva in argento avvenuto nella cappella della Sindone. Per giorni e giorni in città non si parlò d’altro. Poi, come sempre capita, nuovi accadimenti si succedettero: la consacrazione della chiesa di San Pietro e Paolo alla presenza della futura regina Margherita, la morte di Massimo D’Azeglio, un incendio nei magazzini di Porta Nuova… E anche del furto nessuno si chiese più nulla.
(Notizie desunte da C. Chevallard - P. Frova, Cronaca di Torino, Le Bouquiniste, Torino)