Mia madre fa l’attrice, un film di Mario Balsamo. Con Mario Balsamo, Stefania Stefanini, Carlo Verdone. Sezione Torino 33 (concorso).
Il regista (immagino cinquantene) fa i conti con la vispissima mamma di anni 85 e le dedica questo film. Parlando con lei della loro vita, e soprattuto della fugace cariera d’attrice di lei negli anni Cinquanta. Il cinema come lessico familiare, come lingua veicolare per parlare di affetti e dispetti. Un docu molto narrativo, bizzarro e non convenzionale, che affastella troppe cose e rischia di perdersi, ma che ce la fa a centrare il suo bersaglio. Voto 6 e mezzo
Di Mario Balsamo tre anni fa s’era visto qui a Torino, tra molti consensi, Noi non siamo come James Bond, uscito poi dal festival con un premio inportante. Era il docu-racconto con escursioni nella cinefilia e altre bizzarrie di una doppia malattia, quella dei due amici protagonisti, mescolando al resoconto della realtà parecchie sottotrame e piste narrative collaterali, come il tentativo di mettersi in contatto con il mito James Bond, anzi Sean Connery. Come a voler far rispecchiare e riflettere uno dentro l’altra e cortocircuitare il supereroismo e il suo opposto, la massima fragilità del corpo. Devo dir che il pur interessante tentativo non mi aveva per niente convinto, gravato com’era da troppi elementi estranei e incongrui. Stavolta Mario Balsamo centra meglio il bersaglio, proseguendo nel suo tragitto di autore di un cinema felicemente, volutamente spurio e ibrido, di statuto incerto, di continuo oscillante tra realtà, autobiografismo e derive nell’immaginario cinematografico e attraversamenti nostalgici. Con una corrosività e anche una sana perfidia assai distanti dal cronico buonismo e bonaccionismo del nostro cinema italo-romano. Stavolta se la vede con mamma, una signora ottantancinquenne vispissima e indomita di nome Silvana Stefanini, figura non maggiore del cinema primi anni Cinquanta. Comparsate in Lo sceicco bianco di Fellini e qualcos’altro, un ruolo parlante e cantante, benché non creditato, in un mélo-noir con Rossano Brazzi, Jacques Sernas e Lea Padovani, La barriera della legge di Piero Costa. Naturalmente prima che conoscesse il babbo di Balsamo e diventasse madre, che era poi – a quanto lei ci viene a dire – la sua vocazione vera. Da quanto si evince, la storia tra Mario e mamma non è mica stata così lienare, lei essendo secondo lui troppo intrusiva, e dunque ecco allontanamenti emancipatori, tagli di cordone ombelicale e bisticci e baruffe senza fine. Adesso Mario vuol riconciliarsi con lei o almeno ripensare insieme a quella loro vita di figlio e madre. In un’operazione che ricorda curiosamente l’ultimo film di Chantal Akerman No Home Movie (visto a Locarno), anche quello dedicato tutto alla madre. In un atto d’amore e devozione e di conoscenza, tra detto e non detto. Balsamo per fortuna prende alla larga il suo compito, usando come filtro distanziante non solo l’ironia dura e perfino una certa velenosità nei confronti della genitrice cui non risparmia rinfacci (e da cui si fa rimbrottare), ma la sua identità di attrice. E dunque il cinema, a schermare e insiema a fare da collante e mezzo comunicativo tra i due. Cinema come lingua franca di affetti e dispetti. Idea interessante. Un po’ meno per come viene realizzata, poiché Balsamo affolla il suo film (come il precedente) di troppe traiettorie e tracce narrative che si affastellano e confondono. Un home-video con un’intervista anni Novanta alla madre in cui le si propone di rifare quel suo lontano film anni Cinquanta con Brazzi. Il tentativo, abbastanza sadico, di rifarlo oggi. Con Balsamo che maligno costringe la 85enne genitrice e salire e scendere più volte la scalinata di una location di La barriera della giustizia. Facendole pure rirecitare le battute di allora, in una specie di Viale del tramonto grottesco-familiare. Intanto vediamo mamma nel film originale, faticosamnte recuperato attravrso un collezionista. E si parte sui luoghi in cui mamma Silvana fu giovane e conobbe il marito e con lui si divertì. Le Cascine di Firenze, la Capannina di Viareggio, il casinò di Sanit Vincent. C’è anche un provino della vispa vegliarda con Carlo Verdone. Ci si diverte, alcuni passaggi sanno miscelare bene buffoneria e lessico famigliare, alla fine ne esce il racconto di una madre e di un figlio che ce la fa a scansare il patetismo e che coglie parecchio dell’antropologia nazionale sul tema. A conti fatti, non così poco.