Torna a casa in tutta fretta c’è il biscione che ti aspetta.
E’ così, con migliaia di manifesti sui muri cittadini, che si annuncia agli albori degli anni ’80 la nascita di Canale 5 (la vecchia TeleMilano), che dal 1984 si sarebbe arricchita di altre due reti, Rete 4, della famiglia Mondadori, e Italia 1 (che si chiamava Antenna Nord, ed era fortissima nel Nord Ovest).
Nasce Mediaset così come l’abbiamo conosciuta negli anni. Al netto di ogni giudizio politico, e pure sociologico, non voglio nemmeno pensare a quante puttanate mi sarei persa senza la tv commerciale.
E Canale 5, appena acquisita Rete 4, si appropria pure di quello che era il prodotto scelto dai Mondadori per fare la guerra a Dallas.
Dynasty, di nuovo storia di petrolieri, questa volta ambientata non a Dallas, Texas, ma a Denver, Colorado
A me, per dire, piaceva pure di più. Intanto, perché, forse, ero più grandicella. In larga parte perché nella sua pur immensa tamarritudine era un filo meno tamarro di Dallas. Che è tutto dire.
Dynasty come Dallas è stato il simbolo dell’edonismo reaganiano. Ma, rispetto a Dallas, aveva il vantaggio mica secondario di essere prodotto da Aaron Spelling, il Re Mida di quegli anni, che produsse una serie illimitata di blockbuster, da Starsky & Hutch a Charlie’s Angels, da Love Boat a Beverly Hills.
Si narrano le vicende di una ricca famiglia di petrolieri di Denver, si diceva, il cui capostipite era Blake Carrington (l’attore John Forsythe, il mai inquadrato Charlie di Charlie’s Angels), sposato in seconde nozze con quella che era la sua segretaria (ammazza che fantasia), la dolce Krystle (Linda Evans).
Ma il personaggio centrale era lei, la prima moglie di Blake, la perfida Alexis (una Joan Collins strepitosa tanto quanto Larry Hagman nei panni di J.R.).
Diventerà talmente icona, in quel personaggio, che per anni laperfidaAlexis tutto attaccato diventerà un concetto, un modo di dire, nel peggiore dei casi, un modo di essere.
Spelling assume una grande coppia di sceneggiatori (Esther e Richard Shapiro) e dà loro pochi obiettivi, ma chiari: amore e lusso. E fare concorrenza a Dallas, ovviamente.
Il protagonista maschile doveva essere un duro, ma più umano di J.R. E Blake Carrington si presenta come un signore, vestito con eleganza e dal portamento raffinato.
Se J.R si comportava (ed in fondo era) come un cowboy texano, con lo Stetson sempre calcato in testa e gli stivali sulla scrivania, Blake parlava francese, discettava di vini ed arte moderna ed aveva una candida cofana sempre accuratamente pettinata.
Lo interpretava John Forsythe, come si diceva prima, e seppe dargli credibilità.
Brillante negli affari, il caro Blake franava in famiglia.
Fallon, la primogenita una ninfomane problematica. Steven, il secondogenito che nasconde a tutti la propria omosessualità. Krystle (Linda Evans), la seconda moglie, che si dimentica di avvisare di avercelo già un marito (d’altronde, si sa, son dettagli).
Ma anche così, la serie non decollava. La prima stagione, negli Stati Uniti, galleggiò senza infamia e senza ma occorreva un correttivo, e fu lì che gli sceneggiatori si resero conto che mancava una cosa essenziale.
Un cattivo. Ma non un cattivo così così. Ci voleva un cattivo vero, come J.R.
Ma non un uomo, perché c’era già J.R. ed era insuperabile. E a Blake mancava l’attitudine tamarra che, sola, genera il cattivo di rango. Ci voleva la madre dei figli di Blake. Ci voleva la perfida Alexis. Che fa un’entrata in scena memorabile. Un cappello a falda immenso le occulta il viso, mentre vestita di bianco e nero, avanza in un’aula di tribunale. Si siede sul banco dei testimoni e fa a pezzi Blake. Che lo spettacolo finalmente inizi.
La Collins capisce tutto fin dalla prima scena. Non è mai stata un’attrice memorabile, e in quel momento della sua vita sta percorrendo la parte discendente della sua parabola artistica. Però fa suo il copione e per gli anni a venire lei ed il personaggio saranno una cosa sola.
Abiti, trucco, gioielli, pettinature. Sono gli anni ’80 e tutto è sopra le righe. Certi vestiti di Alexis, oggi, al massimo li metterebbe qualche drag queen. Le spallone imbottite di Krystle sono più adatte ad un giocatore di football americano, che ad un’esile signora. Ed entrambe hanno sui capelli una quantità di lacca che deve aver contribuito in manera determinante alla creazione del buco nell’ozono.
A proposito di capelli. Le due rivali se li strappano a più riprese. In ogni puntata c’è almeno una rissa tra le due. Qualche volta solo verbale, più spesso fisica. Gli spettatori si divisero, implacabilmente.
La perfida Alexis o l’angelica Krystle?
Alexis era la cattiva, ma anche una che stava a galla da sola. Krystle alla fine era lo stereotipo della donna ricca per essersi ben sposata: un soprammobile perfettamente conservato, eterno simbolo del gattamortismo.
Per quel che vale, per me, si sarà capito, la perfida Alexis. Tutta la vita.
Dynasty durerà per nove stagioni, dal 1981 al 1989. Sempre più ridicolo, sempre più inverosimile, sempre più eccessivo.
E proprio per questo un polpettone divertentissimo.
Ma siamo ormai al 1989, Reagan é stato consegnato ai libri di storia e Wall Street vive uno dei suoi peggiori crolli. L’Aids comincia a mietere sempre più vittime (e il cast di Dynasty ospiterà tra l’altro, tra le stelle in declino che ogni tanto fanno capolino, Rock Hudson pochi mesi prima della sua morte, e solo chi c’era in quegli anni può ricordare l’abnorme casino che si montò e che qui si tace).
Chiudeva Pan Am ed a novembre sarebbe caduto il muro di Berlino, Gorbaciov portava alto il vessillo della Perestrojka e il capitalismo avrebbe di lì a poco perso il suo mortale nemico, il comunismo, ed insieme a lui, forse, la migliore delle sue giustificazioni.
Non c’era più spazio per Dynasty, Dallas et similia.
Per consegnarlo alla storia minima della televisione, valga una dichiarazione di Linda Evans: ‘Dynasty offriva glamour, lusso e ricchezza in un’epoca in cui non era un problema essere ricchi e mostrarlo.’
Ecco, l’essenza di Dynasty (e di Dallas) in fondo è tutta lì.