E' quanto ha fatto Rob Lilwall, insegnante di geografia che a un certo punto la geografia ha smesso di insegnarla per andarla a sperimentare nelle distanze del mondo. Ed è quanto poi, dopo, ci ha raccontato in In bici dalla Sibera a casa, pubblicato da Ediciclo.
Che dire: è un viaggio pazzesco, un ritorno lungo 56 mila chilometri, il che vuol dire assai più di quanto misuri l'equatore; è il disegno, se disegno c'è, di un viaggiatore che schiva la linea retta e predilige il vagabondaggio. E' l'Odissea su due ruote dell'uomo che si perde, non si arrende, trova nuove vie, allunga il suo sguardo.
Non sarà un grandissimo narratore, Rob Lilwall, ma il libro è tutto in questa straordinaria avventura, che comincia nell'autunno siberiano, non lontano dai luoghi dello sterminio stalinista, con le temperature che dopo qualche giorno precipitano fino a meno quaranta, pensate.
Più volte il nostro mette a repentaglio la sua vita o avverte un pericolo che può essere letale, per esempio attraversando quelle lande della Nuova Guinea dove la vita di un uomo vale zero. Eppure, eppure, le pagine più belle del libro sono quelle su uno stupore che si rinnova quasi ogni giorno. I sorrisi della gente nell'Afghanistan dei talebani, l'ospitalità che non viene mai meno ovunque, anche in Iran, le oltre 200 persone che lo accolgono sotto il loro tetto - Robe ne tiene il conto -, il cibo o una bevanda o un saluto condivisi per strada.
Solo all'ultimo, quando ormai avverte l'aria di casa, gli viene rifiutata l'acqua. In tre anni anni è la prima volta che gli capita. E accade in un bar in Francia.
Un libro che è un giro sul mappamondo, ma anche un libro contro i pregiudizi, contro i luoghi comuni. Sarà un caso che dopo il suo ritorno l'ex insegnante di geografia si è messo a studiare teologia ed è andato a vivere a Hong Kong?