Basta un improvviso folgorante raggio di sole che illumina i mosaici, che lo segui camminando per le calli, perché per non perdersi basta camminare nella penombra dei muri alti finché si arriva a vedere il cielo aperto che si schiude come una liberazione dal labirinto, basta un tramonto barocco che si spera che la città non si arrenda a quel sordo strisciante disprezzo di sé, a quella perdita di valore, a quella specie di suicidio morale, indubbiamente istigato, fatto dell’aberrazione della globalizzazione: animali di vetro di Taiwan, maschere dell’Indiana, merletti pachistani.
C’è da temere che Venezia possa diventare il laboratorio del risentimento per aver rimosso la propria storia, del veleno che si insinua come una sorta di nichilismo mascherato dal disincanto sapiente, dal cinismo sostenuto dal più inconfessabile degli istinti: il tradimento dei noi stessi, dei nostri sogni e delle nostre memorie, l’acquiescenza scettica alla mediocrità che ne è sortita.
Se una volta questa anestesia della dignità, questa inerzia dell’ambizione, questa ipnosi della propria potenza di uomini, nutrita dalla più formidabile consorteria nazionale che schiacciava dubbi e ribellione all’insegna dell’immensa certezza che un dio esiste, oggi l’invito è a riposare in una minorità morale, nella delega di responsabilità a chi è più vicino alla divinità del denaro, dell’organizzazione, del profitto, del mercato a tutti i costi perché in questo consiste la salvezza dalla povertà aborrita, tanto che è più facile rinunciare ai diritti che a magri privilegi.
Qualcuno ha detto che ci sono versi che hanno il potere di rinnovare in noi la misura del mondo e ci sono posti che possiedono la stessa indole al prodigio, restituendoci la perfezione miracolosa della bellezza.
Quando Venezia era una potenza militare e commerciale anche il dio mercato era rispettoso di sapere, conoscenza e bellezza che aiutavano la città-stato a prosperare a diventare sempre più ricca e più cresceva l’opulenza più aumentava la curiosità, il desiderio di aprirsi a altre magnificenze, altri saperi, altre arti, altri ingegni, altri talenti. È stato questo il suo segreto, impareggiabile, così che tutti si sentivano partecipi del suo prestigio, orgogliosi della sua grandezza, fieri del suo fasto e della sua bellezza.. e ne godevano, come è giusto, per un bene comune, ché erano belle e auguste le strade, i palazzi pubblici, le scuole. E si chiamava Petrarca a parlare di filosofia a Rialto, si contendevano ad Amsterdam e ad altre città portuali i maestri d’ascia, ma anche quei pittori sapienti nel ritrarre la luce delle candele, si mandavano in giro artisti a rubare segreti, si apprendevano i prodigi delle sete intessute d’oro, dei velluti e dei broccati. I commercianti esigevano dai figli che apprendessero lettere e filosofia, perché accrescessero l’indole alla diplomazia, a intrecciare relazioni, perché fossero uomini del mondo.
Nulla a che fare con la nostra “modernità” miserabile, nella quale la competitività verte sul taroccare brevetti, abbandonare
Abbiamo espresso una classe dirigente che non ama per sé quello che di meglio produce l’ingegno e lo dimostrano le dichiarazioni dei redditi opime di garage e mini appartamenti da locare. E ce lo proibisce per non correre il rischio che attraverso l’arte, il sapere, il paesaggio, l’armonia riscopriamo il gusto della libertà, della dignità, dei diritti.
Proprio a Venezia si consuma così il gusto perverso dell’oltraggio alla storia e alle aspettative di civiltà, in un tempo che le rinnega come un inutile orpello arcaico. E hanno deciso di innalzare una stele all’arroganza dell’ignoranza e del cattivo gusto, un monumento più alto del campanile, a dis-misura dell’hubrys del profitto, quella torre sospirata da un vecchio presuntuoso che alla fine di una carriera che non ha impresso grandi orme creative, vuole lasciare una sua impronta megalomane, tracotante e futile.
E perché l’affronto sia ancora a un tempo più sprezzante e vigliacco non lo vogliono piazzare al centro della città, come una funesta pazzia, no, lo collocano nell’area più tossica, marginale, disperata e ferita, da dove se ne sono andate le produzioni lasciando veleni e degrado. Si fa così oggi, per racimolare denaro utile a rimpolpare un sistema iniquo, si racimolano quattrini offendendo chi è già offeso, penalizzando chi è già colpito.
Un’amministrazione e uno Stato sleale coi cittadini soprattutto quelli che hanno meno voce e si meritano qualche tozzo di pane promesso e non mantenuto, ha accolto con entusiasmo l’obbrobrio, in cambio dell’offerta di 5 milioni di euro che dovrebbero servire a placare la fame del moloch, del patto di stabilità.
Con un candore sorprendente comune e ministeri e con un entusiasmo allarmante la Regione si sono bevuti tutto, migliaia di posti di lavoro, opere infrastrutturali, interventi di bonifica che l’augusto mecenate e il nipote imprenditore si sarebbero accollati pur non appartenendo alla gamma di interventi spettanti ai privati. Ma è, dicevano, il prezzo che si paga in tempi di crisi e è opportuno e buono e ragionevole subire l’affronto di un cosone immenso brutto e inutile. E poi, rammentano i discutibili fan dell’opera, ci fanno la piscina olimpionica, il parco e coprono lo schifo dell’inquinamento come un sudario su uno sviluppo insostenibile.
Ieri però con altrettanto candore il Comune ha dovuto rivelare di essere stato preso per i fondelli: dei 5 miliardi promessi il gruppo Cardin sarebbe disposto a versare una tranche di 800 mila euro “come rappresaglia per il veto posto dalla sovrintendenza” si è voluto far intendere. Ma in realtà la stessa amministrazione ha ammesso che manca nientepopodimeno che il progetto, il piano delle opere infrastrutturali, un preventivo dei costi, bozze di capitolato, per non parlare delle decantate azioni per le bonifiche, che, dice il nipotino dello stilista, mica spettano a noi. E l’assessore Bettin fa sapere che lo storico edificio ha come impalcatura progettuale dei rendering e alcuni conti di fattibilità.
Insomma potremmo tirare un sospiro di sollievo, la patacca non avrà buon esito, il bidone lo possiamo prendere a calci. Se non fosse per l’ideologia perversa che sta dietro all’operazione, quella di promuovere una speculazione sotto i panni di un mecenatismo peloso, quella di contrattare secondo le regole del ricatto più brutale, lavoro, salute, ambiente, quella di fare degli annunci e delle illusioni un metodo di governo, quello di considerare che sta male, oggetto meritevole di stare peggio, di essere destinato alla sommersione, ché i poveri non hanno diritti, nemmeno quello a distogliere gli occhi dalla miseria imposta.
È sicuro che ai fan della torre, quelli che raccolgono firme e lanciano appelli piace il sostegno di Sgarbi: E’ un edificio che si impone da solo in uno spazio degradato e assorbe la negatività del luogo come un parafulmine assorbe i fulmini. Approvo queste costruzioni che esulano dal contesto….Non lo trovo particolarmente bello, ma distrae lo sguardo con la sua vistosità, cancella tutto quello che c’è di antitetico lì intorno.
Beh, cancellare, cancella: cancella la possibilità di realizzare un piano di bonifica e sviluppo sostenibile di quell’area, la legittima esigenza che se un privato vuole trarre profitto da un bene pubblico lo debba fare distribuendo benefici tangibili alla collettività, che se si deve cedere in bellezza a scopo occupazionale, le ricadute siano di qualità e permanenti. Cancella il dovere di tutti di nono concedersi, di non svendersi, di non farsi liquidare per pochi soldi, perché quella è una condanna alla schiavitù senza redenzione.
Lo scacco matto alla torre deve essere il no manifesto ai giocatori che ci vogliono servi.
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