Totò: fenomenologia sui generis

Creato il 29 settembre 2012 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

di Rina Brundu. Più che un articolo credo sia una dichiarazione d’amore. Per un uomo. Per un artista. Per un mito. Un mio mito. Di sempre. Da sempre. Un mito che ha resistito indenne al passaggio del tempo, alle esperienze diverse, alle rivoluzioni digitali, alle storie di vita. Finanche a quelle importanti. Un mito che così facendo vive con te, diventa parte di te. A suo modo ti modella. Ti concede, quasi per osmosi, di essere parte del suo universo e ti arricchisce di conseguenza. Questo mito è Totò.

Ancora oggi – dopo avere imparato quasi a memoria ciascuna delle sue uscite più indovinate – mi colpisce la forza catartica della sua mimica in virtù della quale anche se lo schermo è riempito dei visi, dei volti, tutti diversi, di molti individui, il mio sguardo rimane fisso sul suo. E non si sposta. Rimane fermo in attesa del prossimo ghiribizzo facciale, del prossimo movimento strano, capriccio geniale, alternativa stravaganza, singolarità, stramberia vocale che non sarà ma sembrerà sempre nuova, sempre diversa.

Ancora oggi – dopo averli visti tutti i suoi film – mi colpisce la carica geniale denunciata dal “pensiero” leggero, mai costruito, mai troppo impegnato, a suo modo scanzonato. E mi colpisce la forza di una visione grottesca del mondo assolutamente unica, diseguale e discorde. Dissento perciò con chi vede in Totò l’Arlecchino del novecento. Di fatto, Totò non ha nulla da spartire con Arlecchino se non il suo destino di maschera immortale. Rispetto a quella datata figura dell’italica commedia dell’arte, la maschera Totò nasce infatti dentro un humus culturale ideale fornito da quella Napoli grandiosa, plebea e milionaria, astuta ma convincente che ha prodotto il meglio del nostro patrimonio artistico nel secolo appena trascorso. Soprattutto, la maschera Totò nasce e si perfeziona studiando il divenire economico e socio-politico di quella straordinaria città, studiando le vite esemplari di molti suo figli illustri e di altri derelitti, studiando e avvertendo sulla sua stessa “pelle” le loro necessità, quelle minime del corpo e quelle infinite dello spirito.

Ancora oggi – dopo averla meditata a lungo – mi colpisce quindi il “carico” di umanità che la maschera-Totò si porta seco. Quel carico di umanità che nei momenti meno riusciti denuncia i limiti dell’Uomo (non dell’uomo Totò), i nostri limiti, e in quelli più fortunati diventa poesia. Un altro importante elemento che differenzia Arlecchino da Totò è infatti il sostrato romantico (in senso tecnico) che connota la poesia di quest’ultimo. Il tocco malinconico vissuto, imprestato da una realtà importante e vivace quale è sempre stata quella partenopea, nel bene e nel male. Quando Totò recita “A livella” o la “Malafemmena” la sua poesia diventa infine arte sublime, di quella che non si può raccontare ma solo ascoltare come solamente accade con ogni sinfonia classica davvero ispirata.

Ancora oggi – dopo averla analizzata a lungo – mi colpisce poi la portata universale di una maschera nata dentro dinamiche fondamentalmente vernacolari (in senso lato), che mercé la forza artistica che la sostiene ha saputo spezzare catene linguistiche imposte e frenanti e ad affermarsi globalmente con ogni dignità. Che ha saputo sopravvivere all’ostracismo di una critica ignobile e bigotta, agli sforzi dell’arte “committed” di nobilitarla (vedi lo “scandalo”, per quanto mi riguarda, del pasolinico “Uccellacci e uccellini” (1966)), ai mille tentativi di imitazione per dirla con il Cavalier Sisini, alle necessità mordi-e-fuggi della comicità al tempo di YouTube, alla morte senza risurrezione della tradizionie comica italica degli ultimi cinquanta anni.

Come a dire che i grandi amori, anche artistici, sono tali perché fanno una differenza. Hanno valore eticamente didattico e ci insegnano. Non si scordano mai e finanche nell’Italietta furbetta delle infinite marchette letterarie, degli intrallazzi culturali finanziati con i soldi pubblici, della corruzione politica per partito preso, del velinismo di ritorno, della comicità digitale senza idee, del servizio pubblico televisivo senza arte ne parte, si fanno rimpiangere. Come a dire che l’Arte con la A maiuscola, a dispetto dei padroni e dei padrini, nonché dei critici impegnati de la rive-gauche, fa ancora una differenza. Come a dire che se si incrociasse la strada con il bravo regista Pasolini bisognerebbe stringergli la mano, ma qualora si avesse la fortuna di imbattersi nella maschera-Totò bisognerebbe inchinarsi. Soltanto.

Featured image Totò alla fine degli anni venti, autore Ludovico Virgilio, fonte Wikipedia.

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