Tra Cesare Paveve e Constance Dowling

Creato il 02 giugno 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

di Iannozzi Giuseppe

“Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”
Cesare Pavese

Posò il libro sul sedile vuoto accanto a sé. Poi tornò a respirare. Per tutto il tempo della lettura aveva trattenuto il fiato: sapeva ogni singola frase a memoria. Quel libro gl’era più intimo della sua stessa anima di cui metteva in discussione l’esistenza, sbarazzandosene con un’alzata di spalle, come a significare che la carne è fin tanto che si è, dopo non è più se non putridume.

* * *

L’ovale del viso era perfetto, d’una perfezione troppo bella per non esser notata: eppure sulla fronte, nei momenti di tensione, si distendeva una virgola, quasi una ruga, un niente sì ma simile a un presentimento di dolore, che presto o tardi sarebbe arrivato. Questo insignificante particolare, che in pochi notavano, rendeva la donna ancor più affascinante a quegli uomini che sapevano guardarla negl’occhi senza temerne lo sguardo accompagnato da parole quasi sempre di rimprovero ma passionali.

Porta Nuova è un viavai di gente: credono di partire, di arrivare; in realtà si spostano di stazione in stazione, di città in città, portando nella valigia l’illusione che cambiare posto cambierà la loro fortuna e persino l’identità che hanno sulla faccia tra denti incapsulati e rughe. Hanno fretta: i viaggiatori sono così. Non hanno ritegno: nell’egoismo della loro fretta calpestano fogli di giornale, danno spintoni a strilloni e venditori ambulanti, si quietano un poco solo per tirare fuori le sigarette quando ormai davanti al binario, rimanendo così in attesa.
Cesare Pavese era morto in un piccolo albergo nei pressi di Porta Nuova: sconfitto dai sonniferi. Aveva deciso, con lucidità, di addormentarsi la vita in una camera d’albergo, al Roma di Torino ingoiando una generosa dose di barbiturici, dodici bustine: 27 agosto 1950, sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, sul comodino della stanza, “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.”. Constance Bowling, l’ultimo amore, non corrisposto, troppo difficile fra le Langhe, l’aveva portato a una depressione fulminante, una depressione che da quarantadue anni buoni lo tallonava: il ragazzo timido, amante dei libri e della natura, sempre pronto ad allontanarsi dagli uomini, sempre pronto a nascondersi per poi inseguire farfalle e uccelli, per sondare il mistero dei boschi, quel ragazzo s’era addormentato una volta per tutte insieme a Cesare Pavese, un uomo che aveva raggiunto dopo i quaranta una certa notorietà e delle lire in tasca non proprio da buttare. Durante il periodo universitario non era troppo difficile trovarlo impegnato in focose discussioni nelle trattorie, assieme a operai e venditori ambulanti, insieme alla gente comune. Erano bastati dei sonniferi per togliersi di mezzo senza pestare i piedi a nessuno.

Tutte le amiche le dicevano che assomigliava a una diva di Hollywood: “Sei bella, bella come Constance.” Francesca alzava le spalle, abbozzava poi un sorriso di sfida: “No. Affatto.” E sulla fronte si accendeva un presentimento di dolore, quasi una ruga ma non ancora matura.
Emilia le correva accanto, quasi: Francesca teneva un passo svelto e la gamba lunga l’aiutava senza che dovesse affannarsi.
Via Po era illuminata a festa: il Natale stava per cadere. Luci e luci, perlopiù di dubbio gusto. Francesca non amava tutto quello sfarzo volgare, proletario: luci d’artista, così le chiamavano, ma a lei apparivano solo per quel che erano veramente, una volgarità sotto la frusta dell’elettricità. I signorotti piemontesi tenevano alti i colli dei loro cappotti: non degnavano d’un solo sguardo nessuno. Ridevano sbuffando, prestando attenzione a una noia affettata che gli trasudava da ogni poro: di fronte a una vetrina addobbata gli occhi gli si accendevano d’un’inelegante sprezzo, come a significare che se solo lo avessero voluto avrebbero potuto mettersi in tasca tutta la Piccola Parigi.
Emilia era una donna sulla trentina, bella ma non bellissima: non aveva la gamba lunga, il suo metro e sessanta le era sempre pesato. Era caliente ma si odiava per quell’altezza che non era veramente tale ma che non poteva essere detta un handicap: fosse stata più bassa, perlomeno avrebbe potuto cercare la comprensione altrui mettendo su occhi da cane bastonato nato così, con un difetto incancellabile. Ma aveva il suo metro e sessanta che diventava anche uno e sessantacinque con i tacchi. Un’altezza normale! Le faceva male ammettere che la sua altezza era semplicemente normale. Francesca invece era una vera donna, elegante, senza un filo di grasso: una bellezza naturale, le sue curve erano quelle d’una Venere greca. Tutto in lei denotava nobiltà: solo sulla fronte, di tanto in tanto, le si disegnava un mistero simile a una ruga. Ma era cosa d’un momento che la rendeva misteriosa, fatale, eccitante. Se fosse stata un uomo, Emilia avrebbe fatto follie anche solo per una notte d’amore con Francesca. Quando si scopriva ad ammirare la bellezza dell’amica un pudico rossore le imporporava le gote: abbassava lo sguardo, diventava goffa, e in cuor suo ammetteva che l’affetto per l’amica non era del tutto disinteressato perché lei l’amava pur essendo sicura di voler Aronne in lei e non Saffo. Però non poteva negarlo, non a sé stessa, che Francesca le ispirava una saffica tenerezza nel sangue.
La rincorse, gridando: “Francy, aspettami!”
Francesca fece finta di non averla udita.
Con l’affanno in bocca, finalmente la raggiunse e la prese per mano: “Che hai, che ti prende?” Poi dovette riprender fiato, mentre davanti agl’occhi già si stagliava il profilo della Gran Madre immersa in una tarda luce crepuscolare, d’un rosso impudico stuprato da squarci di notte incipiente e da fili di nuvole di burrasca.
“Francy, per l’amor del cielo, guardami!”
Francesca, quasi una fiera divorata da un fuoco interiore, le puntò finalmente lo sguardo addosso, uno sguardo che fece perdere un battito al generoso cuore di Emilia: “Allora!”
“Fermiamoci.”
”Fa freddo.”
“Sì, in un bar. Offro io.”
”Non ho voglia… “ E lasciò la frase a metà, visibilmente disturbata. Poi aggiunse, non senza fatica: “Non voglio trovarmi gente intorno.”
”Allora restiamo qui…”, si arrese Emilia. “Possiamo parlare lo stesso.”
”Non c’è niente di cui parlare.”
“Francy, non fare così. Non è stata colpa tua.”
“Non l’ho mai pensato…”
“E allora, che hai, per Dio!”
Ma Francesca si stava già portando avanti. Poi, all’improvviso si fermò, dopo pochi veloci passi.
“La Gran Madre.”
“Sì… sì, è bella.”
“E’ sconveniente”, osservò Francesca.
“Come?”
“Sì, sconveniente. Sembra quasi il ritratto di uno stupro. Guarda che cielo che l’avvolge.”
Emilia tacque: l’aveva pensato anche lei, ma non aveva avuto l’ardire di portare quell’osservazione fuori dalla sua anima. Francesca invece non s’era fatta alcun problema.
“Sì, può darsi che sia come dici.”
”Emilia, tu mi sei amica, vero?”
Emilia corse ad abbracciarla, ma Francesca la respinse con un gesto del braccio portato nell’aria come una lancia, con il palmo della mano aperta. E l’amica ristette, mortificata per aver osato tanto.
“Dimmi solo una cosa: credi veramente che quel che deve accadere accade?”
“Mi fai paura”, biasciò Emilia, anche se aveva capito perfettamente cosa intendesse l’amica.
“Allora, tu che pensi?”
Emilia sbuffò: il freddo di dicembre condensò il suo fiato caldo in fumetti che si dispersero nell’aria. Un refolo pungente l’attaccò al viso, mentre un’ondata calda di sangue le arrivava alle gote.
“Niente. Te l’ho già detto: non è stata colpa tua.”
”Questo me l’hai già detto.”
“E allora, è tutto a posto.”
Francesca abbassò il braccio che teneva a distanza l’amica, e lasciò che questa l’abbracciasse, come un amante: “Ha fatto tutto lui, tu non c’entri.”
Ma quella rassicurazione sussurrata al suo orecchio, con estrema tenerezza, convinse solo Francesca che forse sì, che la colpa era sua e che niente accade per caso ma solo per colpa.
Tornarono indietro verso Piazza Castello: via Po era ormai sotto un cielo notturno rischiarato dalle luci natalizie. Lungo la strada i clacson facevano a gara: qualcuno bestemmiava tirando fuori la testa dal finestrino dell’auto, qualcun altro cercava di farsi valere a colpi di clacson, i più aspettavano dentro le auto ma lividi in volto.
Era calda e morbida la mano di Emilia, così piccola: non ci aveva mai fatto caso.
Era morbida mentre la teneva e insieme tornavano al caos della vita.

* * *

Lei ne era sicura, non gli aveva mai detto di amarlo né gli aveva lasciato supporre che un giorno l’avrebbe potuto amare. Solo gl’aveva detto, con tenerezza materna, che gli voleva bene, ma non si era spinta più in là. Non era colpa sua se lui aveva frainteso le loro uscite, se aveva eretto castelli di sabbia per lei dando per scontato che perché lui l’amava anche lei doveva per forza. No, non era così: ne era certa, lei non aveva mai amato Augusto. Lo vedeva, questo sì, ma come avrebbero detto alcune sue amiche un po’ facili, era soltanto un amico, un fratello, uno che mai e poi mai a letto. Era crudele. Forse lo era, ma non riusciva proprio a vedersi amante di Augusto.
L’aveva conosciuto qualche mese prima, in un caffè. A lei erano caduti a terra degli spiccioli e lui gliel’avevi raccolti con un sorriso: era giovane, più di lei, di almeno un paio d’anni. In queste cose era un’esperta. Un bel ragazzo per cui molte donne sarebbero scese a compromessi pur di averlo, o di non perderlo: bruno, aristocratico nel portamento, mascella volitiva ma non volgare, naso debolmente aquilino, occhi nerissimi, capelli altrettanto neri e debolmente mossi.
Erano usciti insieme. Ma una smorfia di disgusto sempre le si disegnava sulle labbra quando lui si offriva di pagare il conto per lei: non gli aveva mai chiesto questo, tuttavia lui insisteva e alla fine lei cedeva per non tirar su una scenata tra il comico e l’imbarazzo in pubblico. Una sera lui l’aveva portata in un locale esclusivo, il C*****: costava l’ira di dio lì, non era poi quel granché che si raccontava in giro, però Augusto aveva insistito perché quella cena fosse proprio lì e non in un locale diverso più alla mano. Mentre aspettavano d’esser serviti, Augusto le aveva confessato, non senza commozione, di suo fratello morto a causa d’una forte leucemia quand’era soltanto un bambino di dieci anni. Gl’aveva raccontato ogni particolare dell’agonia del fratellino, di come forte solamente dei suoi dieci anni aveva affrontato la morte a faccia scoperta: lei, Francesca, l’aveva ascoltato incuriosita e disturbata nello stesso tempo. Aveva la netta sensazione che Augusto enfatizzasse la morte del fratello, che volesse ispirarle chissà quali sentimenti. Quando terminò, Augusto aveva gli occhi bagnati di lacrime: però non erano belli, non erano quelli d’una persona del tutto sincera. Quelle lacrime, Francesca se n’era accorta, non erano false ma nemmeno spontanee: doveva aver fatto uno sforzo immane per ricordare i particolari, per renderli atroci più del vero, per convincersi ch’era andata proprio così, senza una virgola diversa da come l’aveva pensata lui la storia della morte. Già: aveva mentito, almeno in parte, per suscitare in sé un sentimento che lo convincesse a piangere di fronte a lei. Lei aveva provato quasi pena per il patetico tentativo di lui d’ottenere attenzione: poi per fortuna era arrivato il cameriere.
Fu dopo che glielo disse, quando avevano finito di mangiare e i piatti stavano davanti a loro ma vuoti e sporchi: “Ti amo.”
Gliel’aveva detto così, come un bambino che dice e non sa quel che dice. Gliel’aveva detto con una sicurezza capricciosa, infantile.

E poi quella telefonata che l’aveva buttata giù dal letto.
Sapeva.
Se lo sentiva dentro che doveva esser accaduto qualcosa di spiacevole.
Un presentimento, tipico, femminile.
Il cuore le perse un colpo. Dentro di sé, lei pensò ch’era ridicolo, che stava morendo di malattia prima di sapere: doveva solo interrompere lo squillo, alzare la cornetta e farla finita.
Ma non le riusciva di decidersi.
Continuava a squillare.
Tanta ostinazione poteva venire solo per una cattiva notizia.
Non aveva dubbi.
Rispose.

In fondo se l’aspettava.
Mentiva a sé stessa. Non pensava proprio che potesse accadere un fattaccio del genere.
Che ora? Cercò con lo sguardo l’orologio, che aveva lasciato da qualche parte in camera da letto. Niente.
Una mano invisibile le sfiorò la sottoveste e un brivido le corse lungo la schiena: doveva esser tardi, un’ora vicino all’alba. Era mattino presto o era notte profonda, dipendeva soltanto da quello che gli occhi riuscivano a vedere prima di arrestarsi davanti all’invalicabilità dell’orizzonte. Francesca si aggiustò la sottoveste, con un gesto della mano. Poi si fece dappresso alla tapparella, infilò lo sguardo attraverso le commessure per trovare l’orizzonte, ma c’era solo la nebbia: era già tanto se riusciva a vedere la punta del suo naso. Però la sua figura si rifletteva bene sul vetro, nonostante il buio: una figura traslucida, contorni imprecisi come in una foto d’artista. Sospirò.
Non aveva voglia di uscire di casa.

* * *

Era lì, aspettava. I curiosi ma pochi: a quell’ora. Non lo sapeva di preciso, ma era o troppo presto o troppo tardi. Torino dormiva tutta a eccezione di pochi sconosciuti, e lei.
In lontananza il bronzo delle campane.
Desiderava solo di tornare nel suo letto caldo, che quell’agonia futile finisse in un batter di ciglia.
“Capricci, sempre capricci”, sbottò.
Occhiate di rimprovero la incrociarono alla sua stessa ombra, mentre un infermiere incurante di tutto e di tutti, con gli occhi cisposi, le passava accanto urlando uno sbadiglio muto.

Glielo dissero a bruciapelo che tutto era finito.
Occhi si levarono al cielo, altri si commossero in lacrime asciugate da rapidi fazzoletti bianchi.
Perché l’avevano chiamata? perché lei?
Si sentì un ronzio, di radio: se aveva capito bene la Sinistra ce l’aveva fatta, per poco. Un altro ronzio, il vaffanculo di qualcuno, forse di un paramedico.
Era in prigione: pagine bianche, mura di ospedale. Un tipico Pronto Soccorso, come ce ne sono tanti in Italia.
Finalmente all’aria aperta, senza più occhi su di lei, comprese, fissando l’alba che rasava tetti e comignoli. Era bella l’alba, rossa, d’un bel rosso acceso, aveva spazzato via la nebbia, quella sua mano gelida.

* * *

Non c’erano tante persone, però tutte erano profondamente commosse quasi fossero lì riuniti, sotto un cielo bigio, per assistere al loro di funerale: per un suicida non c’è pietà, e quelli si ostinavano a dire che non era vero, che tutti si voleva un gran bene ad Augusto. Ipocriti: ma l’avesse gridato tutti l’avrebbero graffiata con assurdi sguardi carichi di odio. Solo una vecchia, tutta in nero, scuoteva la testa e biasciava con la sua bocca sdentata che Augusto era sempre stato un piantagrane, che la famiglia non ne poteva più delle sue pazzie: “E’ meglio così… alla fine c’è riuscito… povero figlio, che vita! Sempre a tentarlo ‘sto suicidio, lo giustificherai davanti a Dio…” La madre di Augusto le fece cenno di tacere, ma la vecchia era un osso duro da far tacere. Francesca, nonostante il rischio d’esser aggredita dai presenti, sorrise, mentre stringeva con più forza la piccola mano di Emilia nella sua. Emilia guardò l’amica, austera e bella, arrossì: arrossì d’una segreta felicità. Le mani, annodate, erano le loro e sfidavano la morte, irridevano capricci e debolezze e ipocrisie.

“Non credevo potesse arrivare a tanto”, disse in un sussurro Francesca.
Stavano uscendo dal cimitero.
“Ho sentito dire che non era la prima volta. Ce l’aveva da tempo questo chiodo fisso del suicidio.”
“Sembrava una persona normale…”: ma la prima a non crederci era proprio Francesca.
“Sembrava. In famiglia non è il primo caso: anche il fratello.”
”Il fratello?”
“Sì. Si è dato la morte a dieci anni circa. Una cosa di testa: ce l’hanno nel sangue.”
Francesca sorrise, quasi raggiante, un sorriso che la tradì: ma si sentì troppo sollevata, non era proprio colpevole di niente. Augusto era stato un vile, un menzognero e un pazzo: non era stato il suo no a ucciderlo.
Ma un’ombra le cadde addosso.

* * *

“Ha fatto tutto lui, tu non c’entri.” Quelle parole continuavano a farsi serpente tra i pensieri: Emilia aveva ragione, lo sapeva; e anche lei, Francesca, sapeva di non aver alcuna colpa. Ne era sicura. Però un’ombra le era caduta nell’anima uscendo dal cimitero e non riusciva più a disfarsene.
Mano nella mano erano finalmente arrivate in Piazza Castello.
“Credi veramente che quel che deve accadere accade?”
Emilia ristette. Ma non le disse come pochi minuti prima che aveva paura di risponderle: questa volta, che la mano dell’amica stringeva la sua, voleva darle una risposta che fosse definitiva, perché se non ne fosse stata capace l’avrebbe persa per sempre, Emilia se lo sentiva.
Le labbra le tremarono: “Augusto non ci stava con la testa… Ha fatto tutto lui, tu non c’entri…”
“Questo lo so. E’ che dal giorno del funerale nell’anima ho come un’ombra, un’ombra che non mi lascia respirare, mi capisci Emilia?”
Emilia fece cenno di sì con la testa: non capiva, ma per il bene dell’amica doveva mentirle e risultare convincente: “Nessuno avrebbe potuto aiutarlo né tu né Dio: aveva già deciso di morire.”
E all’improvviso l’ispirazione: Emilia la sentì crescere dentro, nel ventre, come un feto.
E la sua bocca, prima che potesse rendersene conto, partorì quella verità di cui Francesca aveva bisogno: “Ci sono persone che vengono a questo mondo con l’unico scopo di morire. Nascono per morire, per lasciare dietro di sé i vivi. Nascono con questo solo scopo.”
“Mi stai dicendo che Augusto…”
“Non è assurdo come potrebbe sembrare, pensaci bene, Francesca. Era il suo scopo morire. Se non si fosse suicidato la sua vita non avrebbe avuto mai un senso.”
“Quando nella notte è arrivata la telefonata me lo sentivo. Ero nervosa, sul punto di una crisi isterica, mi capisci Emilia? Ma quando poi ero lì, in ospedale, ad aspettare, ti sembrerà crudele, ma non avevo che un desiderio: che tutto finisse, al più presto. Quell’agonia mi era insopportabile. Lo conoscevo poco, pochissimo si può dire: perché mi hanno disturbata? perché?”
“L’egoismo li ha spinti a chiamarti nel cuore della notte. Solo l’egoismo.”
Francesca sospirò: “L’amore come l’odio sono principalmente il prodotto dell’egoismo umano, hai ragione, amica mia. Hai ragione da vendere.”

* * *

Posò il libro sul sedile vuoto accanto a sé. Poi tornò a respirare. Moby Dick o la balena * nella traduzione di Cesare Pavese. L’aveva letto tanti anni addietro, quando era ancora ragazzina; l’aveva letto di nuovo ch’era già una ragazza fatta. E lo stava rileggendo ora, con l’anima d’una donna.
Non c’era più il paesaggio che sapeva da sempre: niente campi arati o da arare, non una pineta, ma il mare, un mare blu e profondo. Mediterraneo.
Una lama di luce le ferì gl’occhi costringendola a socchiuderli, mentre il suo volto spiava attraverso il finestrino del treno il giallo succoso dei limoni di Sicilia.

* Herman Melville, Moby Dick o la balena, traduzione di Cesare Pavese, Torino: Frassinelli, 1932.

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