La tecnologia ha senza dubbio accorciato le distanze fisiche tra le persone. Con un aereo possiamo raggiungere ogni angolo della terra in poche ore o farvi arrivare un documento in una manciata di secondi, grazie a una mail o un messaggio su Facebook. Consideriamo tutto questo una gran comodità. E lo è certamente. Ma c’è ancora uno spazio per noi, uno spazio di solitudine in cui dialogare con noi stessi?
Il punto è che a volte tanta tecnologia per comunicare o stare in contatto con agli altri tramite mail, sms, Facebook, Twitter, Flickr etc. esercita un fascino cui è difficile sottrarsi. La conseguenza è che siamo connessi a Internet per controllare la mail o aggiornare lo status o quant’altro per parecchie ore della giornata. Magari senza che ce ne rendiamo conto e senza soffermarci a pensare a quello che accade a livello psicologico e alle possibili conseguenze di un uso troppo intenso delle tecnologie di comunicazione.
Ad esempio, cosa può significare stare connessi costantemente, pubblicando una foto su Facebook ogni mezz’ora e aspettando che qualcuno la commenti? Cosa può significare essere sempre immersi in un flusso di comunicazioni, importanti o insignificanti, che imponiamo e subiamo dagli altri e che non ci lascia mai da soli? O perdersi ore e ore nella televisione o nei videogiochi? Su questo vorrei fare alcune considerazioni, lontane dal demonizzare la tecnologia, sia chiaro.
Facebook, Internet e il bisogno di conferme e idee
Una prima conseguenza di un uso eccessivo delle tecnologie per comunicare è il cominciare a confidare un po’ troppo nelle conferme che provengono dagli altri sino a fare dipendere ciò che pensiamo dalla loro opinione. Più in generale è come se fossimo in una condizione di fame cronica, con il perenne bisogno di riempirci con idee e stimoli che giungono dall’esterno. Il che conferma quanto l’essere umano sia un animale profondamente sociale, radicato nelle relazioni con le altre persone.
Facebook, Internet e la fuga dalla solitudine e da se stessi
L’essere umano non è però solo questo. È anche individualità, unicità, relazione con se stesso. Da questo punto di vista l’uso eccessivo di tecnologia, da Facebook al vecchio telefono di casa, può essere una fuga dal contatto con se stessi, quando questo contatto appare troppo carico d’angoscia. Per alcuni, la tecnologia forse protegge da una solitudine e da un silenzio vissuti come vuoto e non come occasioni per esplorare il proprio mondo interiore, riflettere in modo autonomo su cosa accade e conoscersi, insomma per indugiare in quella capacità di guardare dentro di sé così tipicamente umana.
Riusciamo a stare bene da soli? O la solitudine ci spaventa?
Quando essere da soli fa paura, quando la separazione dagli altri è troppo dolorosa e davanti a noi si spalanca del tempo libero di cui non sappiamo cosa farcene, la tecnologia può dare l’illusione che ci sia sempre qualcuno là fuori e che non siamo stati esclusi dal mondo. La solitudine che crea angoscia sembra trovare così un rimedio.
La tecnologia riesce a volte a distrarci da noi stessi e a riempirci ma, vissuta in questo modo bulimico, non ci fornirà nessun nutrimento e non ci farà crescere: possiamo avere decine di dispositivi intelligenti e performanti ma non ci salveranno dalla noia e dal senso di vuoto, se viviamo la solitudine come un esilio dal mondo.
Solo se siamo in contatto con noi stessi possiamo essere in contatto con gli altri in modo autentico e costruttivo.
Stare bene da soli è una capacità raffinatissima e preziosa che va coltivata. È ritirandoci transitoriamente in noi stessi che possiamo creare qualcosa da condividere e donare poi agli altri. Con questo torniamo al concetto di mindfulness, che è la capacità di cogliere l’esperienza che stiamo vivendo, in termini di sensazioni, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni, sia che siamo da soli o in compagnia. Se vogliamo evitare di finire col sentirci come Albert Brock, affamato di solitudine, che in un racconto di Ray Bradbury, dice:
Gli amici continuavano a telefonarmi, telefonarmi, telefonarmi. Accidenti, non avevo più tempo per me stesso … quell’orrore della mia radio da polso attraverso la quale mia moglie e i miei amici mi chiamavano ininterrottamente … non c’è un momento in cui non siamo in contatto. Contatto! Che parola ipocrita! Contatto un accidenti. Stretto in una morsa! Artigliato. Torturato, massaggiato, rintronato.
Per approfondire
Bradbury R. (1985). L’assassino. In Il grande mondo laggiù. 34 racconti. Mondadori, 1997.
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Rosalia Giammetta, psicologa e psicoterapeuta, è responsabile dell’area prevenzione dei comportamenti a rischio in adolescenza per l’associazione PreSaM onlus. Nell’ambito dell’educazione alla salute e della peer education, ha condotto numerose attività di formazione e ha pubblicato il volume L’adolescenza come risorsa. Per saperne di più, visita la sua pagina personale e leggi gli altri articoli.