“Tra il dire e il fare c’è di mezzo…” la Motivazione (3 parte)

Da Psychomer
by Paola Sacchettino on agosto 1, 2012

“Non mi scoraggio perché ogni tentativo sbagliato scartato è un altro passo avanti.”  (T. Edison)

 Il modello delle scelte di rischio spiega anche le condotte di perseveranza: se un compito viene inizialmente presentato come facile e ai soggetti viene fatto esperire un fallimento, la maggioranza dei motivati al successo persevera nel proprio obiettivo; il fallimento iniziale fa loro percepire il compito come più difficile e quindi più motivante, mentre solo una minoranza dei motivati ad evitare l’insucesso lo fa, per il timore di registrare un nuovo fallimento. La situazione si capovolge se il compito viene inizialmente presentato come difficile: solo una minoranza dei motivati al successo persiste, poichè dopo il fallimento il compito viene percepito come talmente difficile che il successo diventa troppo poco probabile, mentre tra i motivati ad evitare l’insuccesso la maggioranza persiste in un compito talmente difficile che un nuovo fallimento non rappresenta una minaccia (Rheinberg, 2003; Galati, 2002).

Secondo Weber il potere designa “qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa volontà”.

Lewin definisce il potere come il prodotto della forza massima che A può esercitare su B divisa per la resistenza di B.

Ciò che però, secondo McClelland, accomuna tutte le diverse modalità comportamentali riscontrate è il sentimento positivo di forza, importanza, significato, potere appunto, che le persone provano.

Ed è proprio tale sentimento di “sentirsi grande e potente” che McClelland identifica come l’incentivo della motivazione al potere: “Power: The Inner Experience”. E’ la chiave che spiega l’etereogeneità delle componenti del motivo e dei comportamenti a cui dà luogo: ci sono molti modi diversi per arrivare a sentirsi grande e potente.

Il passo successivo di McClelland è di usare le ipotesi sugli stadi dello sviluppo dell’Io di Erikson (derivate da Freud) per costruire un modello in cui, a seconda della localizzazione della fonte di potere e dell’oggetto su cui viene esercitato, possano essere rappresentate e spiegate le diverse configurazioni della motivazione al potere osservate empiricamente.

I quattro stadi si succedono sequenzialmente, ma la successione non è strettamente legata all’età ed uno stadio precedente può rimanere attivo; tuttavia gli individui si differenziano a seconda dello stadio in cui cercano, preferibilmente, le loro esperienze di potere.

Questo è un modello complesso, con ancora pochi riscontri empirici e che dev’essere ancora sviluppato per chiarirlo meglio (Rheinberg, 2003; Galati, 2002; Mischel, 1968).

L’obiettivo più recente della ricerca è lo sviluppo di modelli motivazionali che permettano di rendere conto della complessità delle situazioni di vita reale, fuori dai laboratori, in cui possano essere messe in gioco strutture motivazionali complesse, con molteplici incentivi che interagiscono in varia misura con il comportamento.

Nel modello si introduce la differenziazione tra l’aspettativa che sia la propria azione a portare (o evitare) il risultato e l’aspettativa (che viaggia in direzione contraria rispetto alla motivazione all’azione) che il risultato sia invece determinato dalla situazione e quindi la propria azione serva a poco (Lombardo, 2006; Galati, 2002; Boncori, 1993).

Allargando la prospettiva, si arriva alla constatazione che qualsiasi azione ha momenti che non possono essere spiegati come effetto della sola motivazione, ma necessitano anche dell’intervento di processi volitivi.

Tuttavia in molti casi la decisione di agire e l’avvio effettivo dell’azione non sono momenti temporalmente contigui, in quanto l’azione presuppone il verificarsi di determinate circostanze ambientali: occorre quindi ipotizzare una fase di mantenimento dell’intenzione, anch’essa caratterizzata dall’intervento di processi volitivi, che da un lato fa sì che le energie spese nel processo di presa di decisione già svolto non vengano sprecate e il risultato di tale processo sia immediatamente disponibile nel momento in cui le circostanze necessarie si manifestano; dall’altro lato orienta la persona a ricercare e “creare” tali circostanze (Rheinberg, 2003; Galati, 2002).

Il successo, a scuola come nello sport e nella vita, ha alla base l’autostima, che si forma fin dai primi anni di vita e la motivazione ad agire è strettamente connessa all’immagine che la persona ha di sé; ma, come abbiamo detto, la motivazione non è un costrutto statico ed immutabile.

Sarebbe, dunque, opportuno che insegnanti, genitori, allenatori, piuttosto che datori di lavoro, tenessero conto di queste teorie quando si trovano di fronte a soggetti svogliati, poco motivati e che totalizzano un numero elevato di insuccessi.

Spesso, utilizzando euristiche di pensiero, si tende ad etichettare le persone come “fannullone”, “svogliate” o “poco intelligenti”.

Forse non è esattamente così: le ricerche di Lewin, Murray, Atkinsons ed Heckhausen, Weber, McClelland e tutti coloro che si sono occupati dello studio empirico della motivazione ad agire (in tutte le sue componenti, positive vs negative) ce lo dimostrano.

 Bibliografia

-   Boncori, L. (1993). Teoria e tecniche dei test. Torino: Bollati Boringhieri

-   Galati, D. (2002). Prospettive sulle Emozioni e teorie del soggetto. Torino: Bollati Boringhieri

-   Lombardo, C. (2006). Motivazione ed Emozione. Roma: Borla

-   Mischel, W. (1968). Personality and Assessment. New York:Wiley

-   Pedon, A. (2005). Elementi introduttivi ai test psicologici. Roma: Borla.

-   Rheinberg, F. (2003). Psicologia della motivazione. Bologna: Il Mulino

 


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