in treno tra DELHI e AGRA (India)
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Tra un binario e l’altro, i colori dei vestiti ad asciugare ti spiegano come vivere e come morire ai margini della ferrovia: non è più un transito, un momento di spostamento ma uno spazio di sopravvivenza, in continua sospensione tra il senso dell’esistenza e la possibilità concessa del viaggiare, tra l’abitudine alla privazione di pane ed affetti ed una carrozza riscaldata, tra una baracca fantasia e una poltroncina di pelle con braccioli regolabili, ancorata in fila alle altre.
Tra una scatola finita di biscotti ed una vacca che pascola tra i rifiuti, si seminano e si annaffiano bambini scuri, fasciati di indumenti così colorati ed accesi da far recedere sullo sfondo della percezione lo sporco e la polvere sul tessuto. Tra un apparecchio elettronico che telefona, naviga in rete, riproduce musica a scelta ed una pila di sacchi della spazzatura vista dal finestrino, mi appare l’eleganza, la natura e la dura dignità del gesto del filare con l’arcolaio: quanta distanza? Tra l’immondizia e l’I-phone ci sono così pochi millimetri che capisci che sono solo lo spessore di una stessa medaglia: la miseria e la fortuna corrono nella stessa direzione, come il treno.
Fuori, in un’altra dimensione, sta fermo Gandhi e la sua campagna, il suo movimento del filare, come una danza utile, come un monumento, muto, che resta granitico nel tempo, immutato nel suo esempio tra la terra e le nuvole, che sorride dietro quegli occhiali, pronto ad accogliere il mondo intero, quando il mondo avrà la forza o la disperazione per guardarlo dritto negli occhi.
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Una mano in tasca
cammina sulla terra rossa
piedi sporchi solcano la vita
e il non saper cos’è lo spirito
senza la gerarchia della povertà
immateriale, senza sapere
di avere un’anima
ed ascoltare soltanto
il richiamo dei ricchi.
“Ma tu cosa vuoi per te?”
“Molto cibo, molto denaro, un’automobile, un cellulare…”
“Dov’è il tuo arcolaio?”