Tra le crepe. Il giardino di cemento di Ian McEwan

Creato il 01 giugno 2011 da Spaceoddity
Nonostante la scarsissima simpatia che provo per l'autore, Ian McEwan, mi scopro piuttosto indulgente con Il giardino di cemento (del 1978, ma ne ho letto un'edizione italiana del 1994, Einaudi, tradotta da Stefania Bertola). In realtà, questo romanzo è sopravvissuto a tutta una serie di letture interrotte per vari motivi (penso, con rammarico e sofferenza, in particolare a Le linee d'ombra di Amitav Ghosh e a Il libro della grammatica interiore di David Grossman). Ma, per qualche motivo, ho bisogno di sospendere la lettura di romanzi e mi nutro di film quale narrativa (e allora noto di più le manchevolezze in merito di registi come Rohmer, che magari vogliono fare un discorso ben diverso).
Se poi dovessi dire quale sia lo specifico che mi ha attirato in questo The Cement Garden, avrei difficoltà a dirlo. O forse no: il punto è che mi sono scoperto a marcare la linea tra me e questo tipo di narrativa. Non c'è dubbio che, a modo suo, questo romanzo di McEwan mi ha aiutato - più di altri - a conoscermi, nonostante la sua narrativa rapida, il suo indulgere in episodi in sé dissacratori e privi di una ricaduta intellettuale o anche solo ludica (penso in particolare a una sepoltura in casa e all'incesto già fin troppo chiaramente alluso per essere anche consumato in diretta).
A ciò si aggiunga una trama non raccontabile, inconsistente, che si può ridurre nelle strategie di sopravvivenza di due fratelli e due sorelle alla morte dei genitori. Eppure Il giardino di cemento, ripeto, con me ha funzionato. Ha funzionato perché Ian McEwan mette le parole una dietro l'altra con stregonesca facilità, perché sa tratteggiare in breve (o in brevissimo) dimensioni esistenziali e affettive, perché sa parlare del suo lettore senza morbosità anche quando il lettore rigetta certe facilonerie o prende le distanze da quei gorghi affettivi. Ian McEwan, in definitiva, si fa leggere, anche da chi cerca altro in un romanzo.
Va da sé che in questa famiglia, mozzata alla radice e piantata in uno spaventoso giardino di cemento, uno spazio che non cresce, uno spazio che mantiene l'ordine alla memoria del nevrotico padre, non esiste niente che si possa considerare - con buona approssimazione e tutte le cautele del caso - normale. Tutta una serie di curiose coincidenze tematiche avvicina Il giardino di cemento al film Buon compleanno, Mr. Grape, che ho visto l'altro giorno. Temi, situazioni, dicevo, non il tocco profondo del film di Lasse Hallström. Ma la coincidenza di questa presenza-assenza della madre, della sua morte, della sua sepoltura, dell'arte di farcela, di intessere rapporti tra sé e col mondo esterno mi hanno riportato alla memoria quel paesaggio provinciale in cui emerge la sola casa dei protagonisti.
Così, faccio fatica a vedere la casa di Jack, Julie, di Sue e di Tom in un contesto urbano: il mondo metropolitano, fuori, il cavalcavia, perfino le case diroccate nei dintorni irrompono a ogni citazione come un pugno nello stomaco, stridono, eppure affascinano: è come se il lettore partecipasse dello stupore dei suoi giovanissimi protagonisti di vivere nello stesso mondo degli altri, di dover rendere i conti, del fatto che una crepa, se si crea, lascia intravvedere ciò che in noi muore e che volevamo nascondere. E che questi sguardi non sono più nostri.

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